Uscito su Apple TV il 29 gennaio, “Palmer” (qui la recensione) è il nuovo lavoro di Fisher Stevens (famoso soprattutto per il ruolo di Chuck Fishman nella serie “Ultime dal cielo”), dove possiamo dire che il documentarista incontra il regista per portare sul piccolo schermo un ritratto dell’America rurale di oggi.
Sceneggiato da Cheryl Guerriero, il film non sembra una storia vera su un personaggio in particolare né un lavoro di sola immaginazione. Al contrario, è un’ode a personaggi familiari, che incarnano tutti gli americani e le americane che convivono con i pregiudizi, con le dipendenze e che provano un bisogno di redenzione, che spesso fatica ad arrivare.
Ho “incontrato” Fisher Stevens per un’intervista intercontinentale. Per capire meglio cosa lo abbia spinto a girare “Palmer”, come sia nato il progetto e si sia sviluppato, e come sia riuscito ad ottenere un risultato così efficace.
Benvenuto su Parole a Colori, Steven. Ho letto in una precedente intervista che uno dei motivi che ti hanno spinto a girare questo film è stata la connessione immediata che hai sentito con la sceneggiatura. Confermi?
La sceneggiatura mi è stata data da un agente e, non appena l’ho letta, mi sono detto che dovevo dirigere io questo film. Sapevo che per la regia avevano già pensato a qualcun altro, ma ho comunque chiesto di poter incontrare i produttori per parlarne. C’è voluto del tempo, ma alla fine l’ho spuntata. Quello che mi ha colpito è stata la semplicità ma l’ampio raggio del materiale. In più, mio nipote a sette anni era come Sam, si sentiva a suo agio a giocare con le bambole, ad essere amico delle bambine. I suoi genitori, che vivono in una zona molto liberale in America, l’hanno lasciato libero di fare ciò che si sentiva. Ma la storia di Sam è ambientata nell’America rurale. E poi c’è questo personaggio maschile che è appena uscito di prigione e che ritrova una seconda possibilità nella vita attraverso gli occhi di Sam, un tema che io trovo bellissimo.
Come mai?
Spesso sminuiamo le persone che escono di prigione, nonostante abbiano pagato il loro debito. Per questo volevo fare un film sull’accettazione, che riguardasse sia il personaggio di Sam che quello di Palmer. In più, all’epoca, Donald Trump aveva da poco vinto le elezioni ed ero convinto che il Paese si sarebbe molto diviso. Io volevo raccontare una storia che unisse le persone, che le riavvicinasse. Non potevo sapere quello che sarebbe successo il 6 gennaio [l’attacco a Capitol Hill, ndr] ma, anche allora, sentivo il bisogno di fare questo film, di parlare di seconde possibilità e tolleranza.
“Palmer” è stato girato interamente in Louisiana. Perché hai scelto di ambientare la storia in questo Stato? Era già nella sceneggiatura oppure è stata una scelta registica?
Buona domanda. Innanzitutto, in America diversi Stati offrono incentivi per girare film. La sceneggiatura inizialmente era ambientata in Alabama, nel Sud degli Stati Uniti, ma non in una città specifica. Quando ho cominciato a lavorare al film, volevo mantenere come ambientazione il Sud, ma potevo scegliere solo tra Louisiana o Georgia. Inizialmente ho pensato a quest’ultima, ma non siamo riusciti a trovare una zona fuori da Atlanta, dove eravamo di stanza, che si sposasse con il nostro budget o che fosse rimasta rurale. Al contrario, in Louisiana, siamo riusciti a trovare delle zone fuori da New Orleans che andassero bene per rappresentare quelle bellissime zone rurali che poi si vedono nel film.
E avete girato tutto in una zona o in più zone?
La città del film è il risultato di una serie di zone molto specifiche che io e il mio team abbiamo cercato intorno a New Orleans per creare l’ambientazione che si vede nel film. Una città fittizia ricreata utilizzando almeno tre zone diverse.
Parlando dei personaggi, invece, la figura del quarterback che subisce un infortunio e poi cade in una spirale di dipendenze e illegalità è in un certo senso un topos del cinema americano. Secondo te questo tipo di personaggio è ancora efficace per parlare della società americana di oggi?
Il problema della dipendenza da analgesici o droghe, come la metanfetamina, è molto diffuso in America, soprattutto nelle zone rurali. La storia di Eddie Palmer, del ragazzo d’oro pieno di promesse al liceo che poi cade in disgrazia, quindi, è una storia “comune”, accessibile. Anche tra gli assaltatori del 6 gennaio, ad esempio, c’era una ex promessa del nuoto che ha avuto problemi a rientrare nella società dopo la sua carriera di successo.
Che tipo di lavoro avete fatto, insieme a Justin Timberlake, per rendere il personaggio efficace e verosimile?
Io e Justin abbiamo fatto molte ricerche e lavorato a stretto contatto con la sceneggiatrice – Palmer è vagamente ispirato a una persona che lei conosce. Abbiamo fatto anche leggere il copione a persone del luogo perché volevo che la storia e i personaggi fossero quanto più verosimili possibile, e abbiamo scoperto che ci sono tante persone con una storia simile a quella di Palmer. Chi leggeva il copione ci ritrovava la storia di persone che conosceva o, addirittura, la propria storia. Molti ci hanno dato anche linee guida su cosa avrebbero o non avrebbero detto in certi dialoghi o situazioni e questo ci ha aiutato molto nel rendere la storia autentica. In quanto documentarista e regista ritengo fosse un mio preciso dovere riuscire a ottenere questo risultato.
Parlando ancora del tuo lavoro con gli attori, gestire i bambini sul set può essere complicato. Com’è stato lavorare con Ryder Allen? E che cosa ti ha spinto a sceglierlo per interpretare Sam?
Ryder aveva sette anni quando lo abbiamo scelto per il ruolo di Sam e il produttore ci aveva, appunto, sconsigliato di scegliere un bambino di quella età, perché rispetto a un bambino di appena uno o due anni più grande può lavorare meno a lungo e dimostrarsi meno maturo. Ero un po’ preoccupato, lo ammetto, anche perché Ryder è stato scelto per ultimo tra i sei bambini che avrebbero fatto il provino con Justin. Quando ho letto il copione con lui era stato bravino, ma la vera magia è accaduta quando ha cominciato a leggere la parte con Justin. Sul set è stata dura, ci sono stati momenti in cui abbiamo dovuto rallentare per adeguarci ai suoi ritmi e abbiamo dovuto prepararlo molto prime di alcune scene. Ho anche chiesto aiuto al regista Peter Bogdanovich, che mi ha detto di non trattare mai un bambino come un bambino, ma di avere un approccio professionale, mettendomi anche allo stesso livello per parlargli, un consiglio utilissimo. Nel complesso, Ryder è stato comunque incredibilmente maturo ed è stato un miracolo averlo perché non riesco proprio a immaginare il film senza di lui!
Con questa domanda, ti saluto e congratulazioni per il film.
Grazie!