Vincitore della tredicesima edizione del Festival di Roma, e già rappresentante del cinema italiano al Festival di Londra, “Il vizio della speranza” è il quarto lavoro del “visionario” (così come è stato definito da Emir Kusturica) Edoardo De Angelis.
Tra i registi contemporanei, De Angelis è sicuramente una voce molto interessante che dimostra una grande capacità di navigare dentro le sue storie senza mai togliere allo spettatore il piacere dell’incontro faccia a faccia con i suoi protagonisti. Abile ascoltatore della sua terra, il regista scova e racconta piccole realtà, meraviglie nascoste e verità universali.
Abbiamo avuto il grande piacere di incontrare Edoardo De Angelis a Londra, in occasione del London Film Festival, a ridosso di un nuovo viaggio, che porterà film e regista in Giappone.
Probabilmente perché siamo alla fine della kermesse oppure per il clima inglese, repentinamente cambiato, la suite del May Fari Hotel dove ci sistemiamo è insolitamente gelida. Ma il freddo non ci spaventa. Tempo di bere un sorso d’acqua e comincia la nostra conversazione sulle origini del “Vizio della speranza” e sulle idee cinematografiche del suo creatore.
“Il vizio della speranza” sta viaggiando molto in questo periodo. Presentato a Toronto, passato per Roma e Londra, pronto per partire per l’estremo oriente. Quali sono le tue impressioni, finora, sui Festival in cui sei stato?
Quello che sto notando è che le reazioni sono sempre forti ed è strano perché vedere questo film è come assistere a una preghiera. Guardare qualcuno che prega può stimolare una forma di solidarietà, come un desiderio di pregare insieme, ma può anche stimolare una forma di imbarazzo, di rifiuto, perché la preghiera è un atto di grande esposizione. L’atto di rivolgersi verso qualcuno che non è qui, ora è un atto che mette a nudo ed è anche un gesto molto intimo e forte.
Ti hanno quindi sorpreso le reazioni del pubblico davanti al tuo film?
Il film genera una forte emozione, che si vede negli occhi di chi lo guarda. Il mio desiderio era di raccontare un gesto religioso, non all’interno di una particolare fede, ma proprio l’atto di rivolgersi verso l’altro in sé. È stato interessante sentire i singhiozzi delle persone alla fine della proiezione, non perché l’idea fosse far piangere la gente, ma perché so che quel pianto è liberatorio. Ho voluto fare un racconto che comprimesse lo spettatore, minuto dopo minuto, per poi lasciare uno sfogo finale. Mi rendo conto che nella commozione qualcuno può provare empatia e qualcun altro disagio, e che questa reazione non è diversa a seconda del luogo perché, anche se la cultura cambia, queste questioni di cui tratto nel film sono importanti per chiunque.
Reazioni curiose, comunque, di fronte a una storia così familiare come il Natale. Storia che tu però stravolgi parzialmente nel film…
Come diceva Benedetto Croce, noi conosciamo per analogia, cioè cerchiamo di mettere in relazione un’esperienza nuova con una passata e, riguardo ai temi della religione e della vita, ognuno di noi ha delle idee, più o meno coriacee. E quindi il tentativo di ricostruire un racconto così semplice ti mette per forza in relazione con quelle idee e questo muove qualcosa. Al di là del simbolo che ho cercato di rovesciare, perché io parto dal fiume, che è un ricettacolo di immondizia, per cercare quello che è rimasto di una certa simbologia, ci sono vari simboli nel mio film che sono diventati simulacri vuoti che l’essere umano deve riempire. Però mi rendo conto che non tutti quanti siamo pronti.
Personalmente ho provato una grande curiosità verso la tua storia e la sua protagonista. Come nasce questa tua nuova Maria?
Maria è la somma di tutti gli uomini e le donne che ho incontrato, è la somma di tante storie che non sapevo bene come mettere insieme, perché diverse, ma che comunque condividevano tutte una forma di disperazione e, al tempo stesso, un desiderio mai esausto di liberazione.
E come sono avvenuti questi incontri, se possiamo chiedere?
Prima del film ho trascorso molto tempo sulla Domiziana, raccogliendo le storie delle donne che su quella strada vendono il proprio corpo. Si tratta di donne in fuga dai loro paesi d’origine, che hanno subito un forte shock, una forte delusione, perché, nella loro ingenuità, hanno deciso di venire in Italia per certi motivi per poi scoprire, una volta arrivate, che le cose stavano in modo diverso. Le loro storie mi hanno sempre commosso, soprattutto questo fatto che ci si possa muovere verso un luogo desiderando qualcosa, per poi scoprire che quello che si considerava una terra promessa è in realtà una sorta di inferno. Accanto a questa mia esperienza personale, due anni fa, un mio amico mi invitò a risalire con lui il fiume, che era un luogo che conoscevo solo in parte. Il fiume è pericoloso, ci sono secche e reti d’acciaio abusive che rischiano di tagliarti la testa, se non sai esattamente dove sono. Risalendo il fiume, ai margini, ci sono però varie baracche dove la vita si insinua in maniera anarchica tanto che, anche se sembrano abbandonati, quei luoghi sono pieni di vita. Ecco da tutti questi incontri con uomini e donne di questi luoghi nasce Maria, che non è per me la donna che partorisce, ma rappresenta l’essere umano in grado di lasciare che il seme del futuro germogli dentro di sé.
In effetti il mondo che rappresenti, nonostante il tema della maternità, è un mondo pieni di uomini e donne. Maria è il personaggio più complesso, ma sfugge in un certo senso alla telecamera…
A me piace che un personaggio in scena mantenga una parte di sé insondabile, perché poi questo aspetto è quello che mi affascina della vita. Non amo fare l’introduzione del film, spiegare dove siamo o cosa stanno facendo i personaggi, ma piuttosto stare in mezzo alla scena perché trovo sia la forma di racconto più rispettosa verso chi guarda il film. Da spettatore mi piace unire i puntini, nei film, mi fa sentire partecipe del processo creativo. Il film deve essere un processo in cui anche la creazione va condivisa, tutto quello che c’è tra i puntini può essere lasciato alla libera immaginazione dello spettatore, un po’ come quando incontriamo un essere umano che ci interessa. Da un lato vogliamo sapere tutto di lui, dall’altro lato rispettiamo il suo mistero.
Proprio perché Maria è un personaggio così complesso, come mai hai scelto Pina Turci per interpretarla?
Questo personaggio si è costruito nella mia mente con le sembianze di Pina, perché ne ho parlato con lei fin dal primo momento. Ogni pezzo che andavo a sedimentare lo mettevo sempre nel suo corpo, per cui per me è stato naturale affidare a Pina questo ruolo, perché l’ho costruito assieme a lei. Ed è stata un’esperienza per me nuova, molto forte. Ho sentito dire che i film vanno fatti contro un nemico ma io non sono d’accordo. A me di solito piace fare i film per qualcuno, nella mia mente è sempre esistita l’idea di fare i film perché li dovesse guardare una persona in particolare. Però questa volta ho fatto un’ulteriore trasformazione, non ho fatto un film che dovesse assomigliare a me soltanto, ma ho spostato l’attenzione su di un altro essere umano.
Parlando invece del tuo cinema, Emir Kusturica ti ha definito un regista visionario. Qual è la visione di cinema che cerchi di portare avanti nei tuoi film? Edoardo De Angelis si sente un visionario?
Ho incontrato Emir prima di esordire con il mio primo film e, durante quell’incontro, mi disse una cosa che non ho più dimenticato: non smettere mai di fare film che ti somiglino, nel bene e nel male. Un film deve essere come la tua casa, può essere anche storta o sbilenca, ma deve essere la tua casa e tu ne devi essere orgoglioso. Questa è una cosa che mi porto dentro in tutti i film che faccio perché è l’unico modo in cui io sono capace di fare film. Quello che mi piace è mettere insieme tutte le cose che mi interessano che però nel mondo sono sparse e disordinate. Mi piace metterle in ordine e raccontare, attraverso una sorta di progressivo disvelamento, quegli aspetti che nella realtà sono nascosti. Cerco di svelare quella forma di magia che è insita nella realtà, quindi mi piace raccontare il mondo come lo vedo nella realtà e come mi piacerebbe che fosse.
Ritornando a questa tua idea di casa, nasce da qui la decisione di ambientare le tue storie in Campania?
La Campania è per me sia un ambiente familiare sia il luogo in cui mi riportano le mie storie. Non escludo però di poter ambientare un film altrove e al tempo stesso fare un film che mi somigli, perché alla fine la casa non è per forza un luogo fisico, è quel luogo dove qualcuno ti aspetta, dove nessuno ti odia e dove tu puoi accogliere gli amici, ed è un posto che si muove, soprattutto se è la casa di un autore.
Prima di salutarci, un’ultima domanda. Recentemente si è parlato tanto di una rinascita del cinema partenopeo. In che modo pensi che questo fenomeno influenzi o abbia influenzato il tuo percorso come regista?
È molto bello che si stia creando un mestiere intorno al cinema dalle mie parti. Vedere che intorno a me stanno nascendo altre realtà mi fa estremamente piacere. A prescindere da questo, io ho sempre fatto film nella mia terra, soprattutto per motivi legati alle mie esigenze creative. È chiaro che la verità è che, in fondo, esiste al mondo un solo tipo di cinema, ovvero quello che emoziona, a prescindere da dove provenga.
Devo dire che “Il vizio della speranza”, a me personalmente, ha emozionato e come! Grazie mille per il tuo tempo.
Mi fa piacere questa cosa. Grazie a te.