“Il prigioniero coreano”: l’insostenibile pesantezza delle ideologie

Ritorno alle origini per il regista sudcoreano Kim Ki-Duk, che realizza un film politico e critico

di Alessandra Pappalardo

 

Un film di Kim Ki-Duk. Con Ryoo Seung-Bum, Lee Won-Geun, Choi Gwi-Hwa, Jo Jae-Ryong, Won-geun Lee. Drammatico, 114′. Corea del sud, 2016

Nam Chul-woo è un povero pescatore nordcoreano che nella sua barca ha l’unica proprietà e l’unico mezzo per dare da mangiare a sua moglie e alla loro bambina. Un giorno gli si blocca il motore mentre si sta occupando delle reti in prossimità del confine tra le due Coree e la corrente del fiume lo trascina verso la Corea del sud. Qui viene catturato dalle forze di sicurezza e trattato come una spia. C’è però chi non rinuncia all’idea di poterlo convertire al capitalismo lasciandogli l’opportunità di girare, controllato a distanza, per le strade di Seul.

 

Il regista, sceneggiatore e produttore sudcoreano Kim Ki-Duk ha abituato il pubblico a pellicole raffinate e di grande spessore introspettivo e psicologico – basti pensare a “Ferro 3 – La casa vuota”, leone d’argento alla Mostra del cinema di Venezia 2004, e “Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera”.

Con “Il prigioniero coreano”, suo ultimo lavoro, siamo di fronte a una sorta di ritorno alle origini, a un film meno intimista e più politico, dove viene rappresentata una realtà polarizzata tra visioni ideologiche contrapposte in cui l’uomo fatica a destreggiarsi e a sopravvivere.

Nam Chul-woo è un pescatore nordcoreano che, a causa di un’avaria al motore della barca, si ritrova nel territorio della Corea del sud, dove viene catturato e sospettato di essere una spia. L’unico suo desiderio è tornare a casa dalla famiglia, ma questa volta è lui ad essere rimasto intrappolato in una rete, in un mondo che non gli appartiene.

Le lusinghe del capitalismo non sembrano essere per Nam la minaccia principale. Se si rifiuta di guardare Seul è perché il solo fatto di vedere qualcosa potrebbe essere fonte di problemi una volta tornato nella sua Corea. Quando però è costretto a farlo vede una realtà contraddittoria e corrotta e ne rileva le incongruenze.

Il film – che ha il limite di risultare ripetitivo in alcune sequenze – è costruito immaginando una visione dialettica, come se le due Coree, in apparenza così distanti, fossero l’una lo specchio dell’altra, entrambe distorte da un’ideologia accecante.

Il protagonista finisce per essere in una posizione di svantaggio comunque lo si guardi – traditore per la Corea del nord, spia per quella del sud. Nonostante questo, con estremo coraggio, non tradisce mai i suoi valori e la sua famiglia. Basterà per fare ritorno a casa?

Kim Ki-Duk si dimostra, ancora una volta, capace di cogliere anche le più piccole sfumature del reale, dando vita a personaggi credibili e ricchi di sfaccettature, e non deludendo lo spettatore sotto il profilo della qualità della narrazione e della carica emotiva.