Un film di Massimo D’Anolfi, Martina Parenti. Documentario, 90′. Italia 2020
Partendo dal 1911, dall’invasione italiana in Libia, e arrivando fino ai giorni nostri, il documentario ripercorrere l’ultracentenaria relazione tra cinema e guerra. In quattro capitoli – passato remoto, passato prossimo, presente e futuro – si accendono i riflettori sul senso della storia e sulle conseguenze dei conflitti, ma soprattutto sull’importanza della memoria.
Mi sono avvicinata alla visione di “Guerra e pace”, lo ammetto, con curiosità mista a un pizzico di timore, influenzata, mio malgrado, dall’esperienza traumatica del nostro Roberto Sapienza nel 2016 con Spira Mirabilis, precedente opera di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti.
Questa volta i due registi realizzano un documentario sulla guerra, o meglio, sulle immagini della guerra: un lungometraggio che è suddiviso in quattro capitoli, come un libro, capitoli organizzati secondo una linea temporale che va dal passato al futuro, attraversando il passato prossimo e il presente.
L’obiettivo è raccontare l’ultracentenaria relazione tra cinema e guerra mediante una riflessione sulle immagini. E proprio le immagini, insieme a chi le crea, chi le raccoglie, chi le restaura e sì, anche chi le osserva, sono le protagoniste del film.
La narrazione si sposta dagli archivi agli uffici consolari, dove le immagini sono le mappe su cui si controllano gli spostamenti dei connazionali in zone rischiose, facendo entrare con naturalezza lo spettatore nella routine lavorativa della Farnesina. Poi ancora avanti, con un’immersione nell’addestramento dei militari incaricati di fare foto e filmati durante le azioni belliche.
Cosa scegli – chiede un ufficiale dell’esercito francese ai suoi allievi – tra imbracciare un mitra o una macchina fotografica, tra difendere un tuo commilitone e documentare l’accaduto? La scelta è solo tua, perché sei un soldato ma sei anche un fotografo.
Qui, secondo me, “Guerra e pace” tocca le corde più sensibili dell’animo di chi lo guarda, abbandonando la pura riflessione sulle immagini per sfiorare una dimensione più umana, più sofferta e più vera. Sensazione che si intensifica nella parte finale, con le testimonianze di alcuni sopravvissuti di guerra. Il documentario va avanti in un crescendo, arrivando a mostrare il suo messaggio, racchiuso nelle parole di un ex soldato:
Dopo che sarà scomparso l’ultimo di coloro che hanno vissuto la guerra sulla propria pelle, resteranno gli archivi, con foto e filmati, la cui esistenza è importante per i nostri figli, per i figli dei nostri figli, e per la memoria.
Ecco, alla fine penso sia questo che vogliono dirci D’Anolfi e Parenti, di non dimenticare. Ce lo dicono con un documentario che intrattiene e che fa riflettere, senza però sconvolgere, perché il suo fine non è di farci rabbrividire mostrandoci gli orrori della guerra – per quello ci sono, ahimè, già tantissimi altri film – ma di perorare la causa della memoria. Strumento utile anche per contenere i conflitti futuri e favorire il dialogo.