Gabriele Muccino, l’Ulisse del cinema italiano, ha fatto ritorno a casa. Dopo una lunga e fortunata parentesi che lo ha visto impegnato con la produzione filmica americana, il cineasta autore de “L’ultimo bacio” e “Alla ricerca della felicità” uscirà nelle sale nel 2018 con un opera che parla prima di tutto di lui.
“L’Isola che non c’è, la mia ultima fatica, restituisce un’immagine totalmente autobiografia della regia”, ha chiarito questo pomeriggio nell’ultimo incontro Giffoni Masterclass 2017.
Com’è stato essere un regista italiano negli States?
“Quando sono approdato in America per girare La ricerca della felicità e Sette anime ero forte di alcuni elementi che consideravo imprescindibili per la mia arte: non di rado partivo dal talento e dalla personalizzazione degli attori, dalla pura tecnica della messa in scena e non mancavano casi in cui mi ritrovassi a modificare la sceneggiatura in corso d’opera”.
E compiere invece il viaggio a ritroso? Cosa porta con sé Gabriele Muccino di questi anni?
“Oggi porto via dal nuovo continente una voglia mai così tanto forte di proseguire nel solco della sperimentazione, nella ricerca di una realizzazione che possa essere considerata coraggiosa. A questi elementi endogeni ho affiancato la necessità di tornare a girare film che sentissi totalmente miei, che avessero un’anima complessa e che fino all’ultimo frame rispettassero questa volontà. L’Isola che non c’è è perciò la quinta essenza di ciò che sono oggi”.
Un artista ormai maturo, che non ha più remore nel discutere degli aspetti maggiormente dibattuti dalla critica.
“La critica italiana prima e successivamente quella internazionale mi ha accusato spesso di un sentimentalismo sterile e fine a se stesso. L’ultimo bacio è entrato a pieno titolo nell’immaginario collettivo, ma in tanti hanno voluto vederci solo una classica storia a lieto fine. In realtà, ponendo attenzione già solo alle ultime scene, si comprende quanto al sentimentalismo io preferisco l’emozionalitá che emerge dalla caratterizzazione maniacale dei miei personaggi”.
I suoi caratteri risultano spesso animati da una profonda inquietudine. C’è qualcosa di autobiografico in loro?
“Gran parte delle figure che popolano i miei film sono anime inquiete che devono sopravvivere a questa consapevolezza. Figure proiettate verso qualcosa di indefinito e perciò spinte fino alle estreme conseguenze. A chi ha criticato questo modus operandi registico ho spesso risposto che sono la resa della mia stessa inquietudine”.
Ad averlo reso il professionista carismatico che è oggi hanno contribuito esperienze e modelli.
“De Sica, Monicelli, Age e Scarpelli, Risi continuano ad essere i miei riferimenti di una certa idea di estetica cinematografica. De Sica, più di tanti altri, lo ritengo il capostipite di un classicismo assolutamente ancora attuale e che trasuda da alcune mie opere emblematiche come Alla ricerca della felicità. Ovviamente esistono anche artisti che non ho particolarmente preferito, perché ritengo siano andanti contro una mia idea di gusto”.
Chiamato a fare un bilancio della sua produzione fino a oggi, Gabriele Muccino si definisce un uomo assolutamente soddisfatto.
“So perfettamente cosa mi ha permesso di essere la persona che vedete. La mia famiglia è stata fondamentale, ma ancor di più la pazienza e la perseveranza con cui ho atteso che i miei sogni e le mie ambizioni prendessero corpo. Ai ragazzi del Giffoni, perciò, sento di dire: non bruciate le tappe, ma godete delle conquiste, anche di quelle più elementari. Vi servirà a comporre quel magnifico puzzle che vi renderà unici”.