Un film di Brian Hill. Documentario, 95′. 2015
La Svezia è un Paese civile. La Svezia è la patria dei diritti civili. La Svezia è il posto ideale dove vivere. Quante volte avete sentito frasi come questa nel corso della vostra vita, soprattutto in contesti dove veniva di contro sottolineata l’arretratezza dell’Italia, rispetto alla nazione scandinava?
Ebbene, guardando questo interessante documentario scoprirete, magari con stupore, che la mala giustizia è un male che non infesta soltanto i lidi nostrani, ma si trova anche nella civile Svezia.
Chi è Thomas Quick? È un paziente psichiatrico che nel 1992, mentre si trovava ricoverato in un centro di cura, cominciò a confessare una serie lunghissima di efferati omicidi, omicidi rimasti fino a quel momento irrisolti. La polizia, davanti a quelle confessioni, aprì un caso e ascoltò Quick con il supporto di luminari, specialisti e psichiatri.
Thomas Quick sembrava aver rimosso i fatti di sangue che lo avevano visto protagonista. Grazie alla terapia e ai farmaci i suoi ricordi erano però come riaffiorati. Un’amnesia davvero strana, la sua, confermata però dalla scienza.
Quick confessò oltre trenta omicidi, diventando il primo e più feroce serial killer di Svezia. Fu processato e condannato per otto di questi. I parenti delle vittime potevano finalmente dare un volto al crudele assassinio dei loro cari.
Caso chiuso? No, per niente, perché Thomas Quick, così come aveva iniziato, smise di parlare, chiudendosi in un ostinato silenzio fino al 2008 quando il giornalista investigativo Hannes Rastam ritenendo alquanto fragile – se non un’operazione puramente mediatica – il castello di accuse montate contro di lui decise di vederci più chiaro.
Thomas Quick, chiedendo di farsi chiamare con il suo vero nome, Sture Begwall, rivelò che le sue confessioni erano false e costruite ad arte per ottenere farmaci e attenzione di terapeuti.
Partì così una contra-indagine giornalistica a opera di Rastam, che ben presto mise a nudo l’incredibile e kafkiana montatura giuridico-scientifica costruita. Begawall era il capro espiatorio perfetto e l’opportunità, per molti, di fare carriera, ma anche un megalomane facilmente manipolabile.
Un documentario, quello diretto da Brian Hill, che seppure molto povero dal punto di vista tecnico e stilistico non può non scuotere lo spettatore, portandolo a farsi alcune domande. Il film alterna stralci di interviste a personaggi reali – in particolare quelle fatte allo stesso Sture Begwall – a ricostruzioni di alcune scene interpretate da attori.
Un mix tra finzione e realtà che non è completamente riuscito, tanto che la storia, cupa e al contempo grottesca, finisce per perdere potenza e incisività.
Come spesso accade la verità può essere devastante e destabilizzante ancor più di una sceneggiatura ben scritta. Quando sullo schermo appare il volto di Quick/Begwall che racconta la sua storia più di un brivido percorre lo spettatore.
La regia è di taglio televisivo, molto scolastica e basica, ma ciò nonostante riesce a catturare l’attenzione dello sbigottito pubblico che si trova ad assistere a un film horror e poi a una macabra commedia.
Alla fine del processo di revisione Sture Begwall è stato assolto da tutte le accuse, e nel 2014 è tornato libero di uscire, dopo ventitré anni, dall’ospedale psichiatrico.
Potrebbe essere un lieto fine, visto come trionfo della verità e della giustizia, se non fosse per i trenta omicidi irrisolti, alcuni tra l’altro caduti in prescrizione, e per il fatto che i responsabili della montatura del “caso Quick” non hanno ricevuto neppure un buffetto sulla guancia.
Ma in fondo la Svezia è il paese ideale, no?
Il biglietto d’acquistare per “Le confessioni di Thomas Quick” è: 1)Neanche regalato; 2)Omaggio; 3)Di pomeriggio; 4)Ridotto; 5)Sempre.