di Concetta Piro
Un film di Antonio Albanese. Con Antonio Albanese, Alex Fondja, Aude Legastelois, Daniela Piperno, David Anzalone. Commedia, 103′. Italia, 2018
Mario Cavallaro è un abitudinario incallito. Tutto ciò che richiede un cambiamento lo spaventa e lo irrita al contempo. Ha un solo hobby: l’orto che ha realizzato sulla terrazza dello stabile in cui abita nel centro di Milano. Quando si ritrova dinanzi al suo negozio di calze un africano ambulante che vende lo stesso articolo (anche se di qualità inferiore) a prezzi stracciati, elabora un piano che potrebbe servire da modello. Decide di rapirlo e riportarlo in Africa. Se tutti facessero così il problema dell’immigrazione extracomunitaria sarebbe risolto…
Attualità, nel cinema di oggi, tende spesso a far rima con banalità. Il rischio di scadere nel banale è direttamente proporzionale allo spessore dell’argomento trattato, che è poi quello che più crea dibattito sia sui media sia nelle discussioni delle persone al bar.
In “Contromano”, Antonio Albanese ha scelto di correre due rischi. Il primo è raccontare una storia di immigrazione per continuare a tenere accesi i riflettori su una problematica attualissima ma a cui spesso ci si avvicina con perbenismo. Il secondo, farlo utilizzando la comicità, il ridicolo, invece del consueto politically correct.
Lo stile narrativo, come di consueto, si concentra sulla capacità del cast di raccontare la quotidianità. A questo si aggiunge quel pizzico di satira che permette al pubblico di ridere delle disgrazie dell’uomo comune del 2018 senza per questo sminuire l’importanza del messaggio di fondo.
Memorabile la fotografia, capace di unire i colori italiani e africani, sparpagliandoli per tutta la durata della pellicola, in un connubio equilibrato di etnie che si mescolano finendo per compensarsi a vicenda.
Nonostante il film possa sembrare a un’osservazione superficiale privo di ossatura e di carattere, alla fine della visione si ha l’impressione che sguardi, sorrisi e parole non dette riescano a veicolare il messaggio molto meglio di una sceneggiatura lineare. Operazione riuscita, insomma, almeno in parte.
Se infatti le intenzioni di Albanese erano buone – catalizzare l’attenzione del pubblico sulla causa del problema più che sul problema in sé e per sé -, la narrazione finisce per sembrare, complice anche il finale scontato e prevedibile, più perbenista del dovuto. Della serie: cercare di differenziarsi dalla massa è più semplice programmaticamente che nei fatti. Al cinema, ma non solo.