Fresco di quattro candidature agli Oscar (miglior film, miglior attore protagonista, miglior sceneggiatura non originale, miglior canzone), “Chiamami col tuo nome” di Luca Guadagnino arriva nelle sale italiane, dopo aver conquistato l’America e vinto numerosi premi in giro per il mondo.
Abbiamo incontrato il regista italiano e due degli interpreti principali, Armie Hammer (Oliver) e Timothée Chalamet (Elio Perlman), alla presentazione romana della pellicola.
Più che un film sull’amore, “Chiamami col tuo nome” sembra essere un film sulla famiglia.
“Io non penso che sia un film su una storia d’amore omosessuale – ha spiegato Guadagnino – quanto su una persona che scopre se stessa. È un film sul desiderio, ovviamente, e il desiderio non conosce definizioni di genere. È anche un film sulla famiglia, sì. Quando l’ho girato ho pensato molto alle pellicole Disney: volevo realizzare un racconto emotivo in cui la famiglia, proprio come accade spesso nei film d’animazione, è un luogo dove le persone riescono a migliorarsi a vicenda. Pensiamo solo alla trilogia di Toy Story…”
L’affermazione fa sorridere i due protagonisti, che ne capiscono lo spirito anche se non si sentono affatto personaggi disneyani.
“In realtà io faccio solo film disneyani – scherza Chalamet. – A parte gli scherzi, lavorare con Luca è stato fantastico, perché è raro per un attore, a quest’età, trovare un ruolo così. Come attore il mio compito è rendere giustizia al personaggio e alla storia, essere aperto e non sentirmi vulnerabile nei suoi confronti. Sentivo la responsabilità di portare verità in una storia molto conosciuta, vista l’estrema popolarità del libro, almeno negli Stati Uniti (“Chiami col tuo nome”, André Aciman, ndr)”.
Famiglia e ricerca di se stessi, ma anche scoperta della propria sessualità a 360°, nel film.
“Parlando del film con un regista, qualche giorno fa, ho detto che il monologo di Michael Schulbarg, alla fine, per me parla di come ci si rapporta all’amore e di come si affrontano l’istinto e la sessualità; secondo lui, invece, la scena ha più a che fare col dolore. E ripensandoci penso abbia ragione – spiega Chamalet. – Ho letto il libro cinque anni fa, quando si è cominciato a parlare del film. Ho ritrovato la mia copia di recente e ho visto che avevo sottolineato tutto il monologo, che ci dice che c’è magari un momento in cui si soffre e ci si sente distrutti ma che proprio per questo è inutile aggiungere altra sofferenza, non serve a niente.”
Ma una famiglia così aperta, a inizio anni ‘80, non è un po’ un’utopia? Esiste – o è esistita – davvero?
“Ho sempre creduto a chi dice che l’utopia è la pratica del possibile – spiega Guadagnino. – Certo che esiste la possibilità di trovare questa famiglia. Il 1983 è un anno storicamente decisivo. Elio è l’aurora di una vita nuova che nasce, ma il 1983 è anche il tramonto di un’epoca. La possibilità di rimanere aperti alle novità della vita è tipica della generazione dei genitori di Elio, giovani del ‘68. Oggi ci appare un atteggiamento lontano. Ma la famiglia è il motivo per cui ho fatto il film.”
Luca Guadagnino e l’arte della regia. Come si rapporta agli attori e come costruisce le sue scene?
“Nel corso degli anni ho imparato che la cosa più importante per me è il movimento del quadro, ossia come prende vita la scena a partire dai singoli elementi che la compongono, inclusi gli attori, e come questi si muovono nello spazio. Mi piace che insieme ai miei attori ci si dimentichi della sceneggiatura, per tessere sul momento, mentre si sta girando, la tela dell’intera sequenza. Ma questa è solo una prima fase, poi inizia il montaggio e lì, insieme a Walter Fasano, con cui collaboro ormai da 30 anni, cerco di esaltare al massimo quello che si è prodotto sul set, di mettere in mostra la verità degli attori e delle loro interpretazioni. Io e Walter amiamo un certo tipo di immaginario decostruttivista, cerchiamo sempre l’armonia nella dissonanza. Se si esclude Melissa P. ho sempre avuto il privilegio di fare i film che volevo. Nessuno mi ha mai detto quello che dovevo fare.”
E la mano del regista si sente, anche dall’altra parte della macchina da presa.
“Luca ha un equilibrio meraviglioso – racconta Armie Hammer. – Ci sono registi che si intromettono molto e ti dicono di fare una cosa, di spostarti, e invece con lui c’era un’incredibile libertà. Una volta scelta l’inquadratura ci lasciava liberi di fare quello che avevamo bisogno di fare, come toccare o prendere in mano certi oggetti. E se la cosa funzionava ti lasciava vivere in quello spazio e andavamo avanti, mentre se non andava bene interveniva, in modo non invadente ma ti faceva delle domande che ti riportassero dove dovevi essere, ti chiedeva: “Dove sei adesso? Non sei qua, ho bisogno che tu sia qua adesso”. È una cosa che non capita spesso ma è molto utile, per un attore, essere riportato al personaggio”.
Forte, se pur non preponderante in “Chiamami col tuo nome”, la componente amorosa. Girarlo ha cambiato la percezione di questo sentimento nei protagonisti?
“Mi viene da sorridere quando penso a me e al personaggio – racconta Chalamet. – Io non ho mai provato questo tipo di passione, con tappe significative come quelle di Elio. Se ho imparato qualcosa dal film è come interpretare e capire la gente che si innamora intensamente, che sia di un essere umano o di una pesca. Penso che più riusciamo a tenere il sentimento libero, senza definizioni ed etichette, più saremo liberi e capaci come Elio di impegnarci nell’amore, compresa la sofferenza che comporta, senza aggiungerci altro dolore.”
Impossibile non soffermarsi almeno un attimo sulle recenti nomination agli Oscar. Il film concorre infatti in quattro categoria, due di assoluto prestigio.
“Siamo felici e orgogliosi – dice Guadagnino. – Condividiamo le nomination con questa troupe magnifica e con tutti coloro che ci hanno aiutato a realizzare il film. Il nostro è stato un percorso pacato. Anni fa, e vi prego di prendere questo aneddoto nel modo leggero e scanzonato con cui ve lo racconto, dissi a una mia amica durante gli studi universitari, mentre eravamo in autobus e si vedeva il Vaticano in lontananza: “Magari non diventerò mai papa… ma una nomination all’Oscar potrei ottenerla!”.
“Mi sono svegliato stamattina e mi sembrava di sognare – racconta invece Timothée Chalamet. – Sono molto grato perché per un giovane artista è incoraggiante e rassicurante ricevere dei segnali come questo. Dopo 4 o 5 anni di studi di arte drammatica a New York conosco bene questo mondo e so come ci si possa sentire a fare un provino ogni 10 giorni e non ottenere neppure una parte. Voglio godermi il momento, perché la vita di un attore è inevitabilmente fatta di alti e bassi, e quando attraversi un momento del primo tipo… goderselo è legittimo.”