Un film di Denis Villeneuve. Con Ryan Gosling, Harrison Ford, Ana de Armas, Sylvia Hoeks, Robin Wright, Dave Bautista. Fantascienza, 152′. USA 2017
L’agente K è un blade runner della polizia di Los Angeles, nell’anno 2049. Sono passati trent’anni da quando Deckart faceva il suo lavoro. I replicanti della Tyrell sono stati messi fuori legge, ma poi è arrivato Niander Wallace e ha convinto il mondo con nuovi “lavori in pelle”: perfetti, senza limiti di longevità e soprattutto obbedienti. K è sulle tracce di un vecchio Nexus quando scopre qualcosa che potrebbe cambiare tutte le conoscenze finora acquisite sui replicanti, e dunque cambiare il mondo. Per esserne certo, però, dovrà andare fino in fondo. Come in ogni noir che si rispetti dovrà, ad un certo punto, consegnare pistola e distintivo e fare i conti da solo con il proprio passato.
Collocando l’azione esattamente trent’anni dopo rispetto a quanto accaduto nel capitolo precedente firmato da Ridley Scott, “Blade Runner 2049” riesce nell’intento di mantenere intatto il fascino dell’immaginario del suo predecessore, pur modernizzandolo e donandogli un forte timbro contemporaneo.
Sono passati molti anni dalla fuga di Deckard (Ford) e tutto è cambiato. Solo la pioggia continua a scendere incessante su Los Angeles. E sull’Agente K (Gosling), un nuovo tipo di replicante coinvolto in un’indagine molto particolare.
“Blade Runner 2049” continua a raccontare ciò che Scott aveva concluso ma non si guarda indietro, prendendo la sua strada con coraggio, continuando a estendere il genere sci-fi ma cambiando la psicologia dei personaggi, all’apparenza meno umani e più consapevoli di se stessi in quanto replicanti ma comunque costretti a convivere con un tormento interiore.
Il plot scorre in maniera abbastanza blanda, con un ritmo compassato che scandisce tutta la pellicola, senza mai accelerare ma creando dei vuoti costanti, dei grandi monologhi, e lasciando alla potenza delle immagini, delle inquadrature, dei suoni e dei colori il compito di riempire gli occhi dello spettatore.
Lavorando ancora una volta con il fidato direttore della fotografia Roger Deakins, Villeneuve fa suoi ed espande i topoi visionari che Scott ha imposto 35 anni fa, rendendogli omaggio, ma al contempo modernizzandoli.
La Los Angeles del 2049 è perennemente grigia e squallida, soffocata dalla pioggia e da cinerea neve, una megalopoli morente che si dirama a perdita d’occhio su un pianeta moribondo e freddo, che gli abitanti non vedono l’ora di abbandonare.
Solitudine e disperazione regnano, i rapporti tra individui si limitano a incontri fugaci o meramente lavorativi. Nessun futuro positivo, ma solo un’urbe sinistra, ripresa dall’alto, vene stradali tutte uguali, criminali, prostitute e replicanti che si nascondono.
Più minimale e meno kitsch dell’originale di Ridley Scott, Villeneuve amplia notevolmente lo spettro della percezione dello spettatore incuriosito, in quanto il plot non si dipana più nella sola città. L’agente K, infatti, visiterà diversi punti di un suolo americano arido, povero e non ospitale al di fuori della barriera.
Malinconico, immersivo, delicato, mai scontato né banale, “Blade Runner 2049” riesce a regalarci anche un messaggio bioetico più diretto e meno velato: l’ossessione verso la creazione si arricchisce di nuove letture sul confine tra reale e virtuale, analogico e digitale, nato e creato.
Questo è il cuore doloroso di un film, che prova a esplorare anche i territori dell’affettività e del sentimento.