Ammetto che dopo aver finito “Appartamento 401“ di Shūichi Yoshida, edito da Feltrinelli, l’emozione dominante in me è stata la confusione, o meglio, l’indecisione e il dubbio.
Mi è piaciuto o no, questo romanzo? Sono riuscita ad arrivare al cuore di quello che l’autore giapponese voleva dire con la sua storia? Mi sono persa qualcosa di importante, che mi ha portata a non capire il libro a pieno? Tutte domande a cui ho difficoltà a trovare una risposta.
Inizio col dire che la mia “frequentazione” con la narrativa nipponica è fatta di alti e bassi. Ci sono romanzo che mi hanno stregata, come “La ragazza del convenience store” di Sayaka Murata o “1Q84” di Murakami Haruki, e poi ce ne sono altri che mi hanno lasciata interdetta e persino frustrata, come questo di Yoshida.
Non necessariamente il ritmo lento e compassato che molto spesso accompagna le “storie giapponesi”, questo racconto del presente che per noi occidentali ha comunque i tratti della fiaba senza tempo, è un limite. Ci sono storie che riescono a trasmettere un messaggio, un’emozione, qualcosa, nonostante la distanza culturale, stilistica e linguistica.
“Appartamento 401”, invece, non è riuscito a centrare il bersaglio, almeno con me. La storia di Ryosuke, Kotomi, Mirai e Naoki, che convivono nel quartiere di Setagaya di Tokyo, mi è passata accanto senza toccarmi in modo particolare. E questo nonostante ai quattro – cinque, se si conta anche il giovane Satoru, che una mattina va a vivere con loro – succedano diverse cose, che le loro non siano vite che potremmo definire banali.
L’elemento thriller a cui si accenna nella sinossi – il fatto che nel quartiere inizino a verificarsi misteriose aggressioni a donne – poteva forse essere gestito meglio, invece di relegato in secondo piano, così da dare un po’ di verve a un libro altrimenti molto lento e piatto.
Non un brutto libro, attenzione, ma un libro dall’anima profondamente nipponica, che potreste amare oppure non riuscire a decifrare, a giudicare – come è successo a me.