Un dramma teatrale scritto da Tennessee Williams, tradotto da Gerardo Guerrieri, diretto da Arturo Cirillo. Con Vittoria Puccini, Vinicio Marchioni, Paolo Musio, Franca Penone, Salvatore Caruso, Clio Cipoletta, Francesco Petruzzelli.
È più comodo adattarsi alla moda del momento che andare controcorrente. Meglio mentire ed essere popolare, che dire la verità e restare solo. Viviamo in una società dove l’ipocrisia e il conformismo sono ancora i tratti prevalenti, e anche all’interno di una stessa famiglia è possibile osservare l’apoteosi della falsità.
Nonostante le parole modernità e progresso siano sulla bocca di tanti, certi usi e costumi non si evolvono mai davvero.
Fino a ieri non conoscevo direttamente il drammaturgo Tennessee Williams, anche se voci del suo talento e soprattutto dei suoi successi teatrali e cinematografici mi erano giunte all’orecchio – chi non ha almeno sentito nominare “Un tram che si chiama desiderio”? Non sapevo quindi cosa aspettarmi da La gatta sul tetto che scotta – al teatro Ambra Jovinelli di Roma fino al 15 marzo – e leggendo la sinossi di regia che lo presenta come un dramma ho avuto, lo confesso, un attimo di smarrimento. Ero ovviamente curioso di vedere per la prima volta in scena Vittoria Puccini e di riconfermare la stima artistica a Vinicio Marchioni e ho incrociato le dita
Quando si è aperto il sipario e ho iniziato a conoscere le dinamiche della coppia formata da Margaret (Puccini) e Brick (Marchioni) e ad ascoltare i rispettivi lamenti, nella mia mente è apparso il ricordo del bellissimo e feroce film danese “Festen”. Già perché in entrambi i casi lo spettatore viene avvolto dalla storia e soprattutto dai turbolenti e precari equilibri di una famiglia in cui niente è come appare.
Chiusi nella propria camera da letto, Maggie e Brock si confrontano sull’infelicità del loro matrimonio, in cui non ci sono più passione, sesso e complicità. Per via dell’amarezza e della delusione di lei, dell’apatica indifferenza di lui.
Maggie la gatta cerca di scuotere il marito, di sedurlo, di richiamarlo ai suoi doveri e soprattutto di non farsi ingannare dal fratello Cooper (Petruzzell) e dalla cognata Mae (Cipoletta) per ciò che riguarda la probabile divisione dell’eredità di papà Harvey (Musio), malato di cancro.
Nonostante i tentativi della donna, Brick sembra non prestare alcuna attenzione né nutrire il minimo interesse per le parole della moglie, preso com’è dall’alcol e dal doloroso ricordo dell’amico Skipper, prematuramente scomparso. Un’amicizia intensa, particolare, forse più che intima, quella che univa i due uomini, capace di generare più che qualche sospetto nella famiglia.
Famiglia guidata con rigore e forza da Papà Harvey che, nonostante la malattia, si dimostra energico e carismatico al punto da battibeccare continuamente con la moglie Ida (Penone), con i figli e con la mal sopportata nuora. Harvey, nel corso di un drammatico e serrato dialogo con Brick, capirà quali sono i motivi che spingono il figlio a bere, e cosa lo renda tanto infelice, facendo in qualche modo capire allo stesso figlio la vera natura del legame che lo legava a Skipper. Una rivelazione che, insieme alla malattia del patriarca, rischierà di far saltare l’apparente serenità familiare, tanto da spingere Maggie, intenzionata a non perdere la propria posizione, ad annunciare una futura nascita, rendendo felice i genitori di Brick e suscitando perplessità nel resto della famiglia.
Probabilmente scrivendo che il testo di Williams – premiato con il secondo Pulitzer nel 1955 – non mi ha particolarmente colpito, e in alcuni punti è arrivato addirittura ad annoiarmi, farò gridare allo scandalo i puristi del teatro, eppure da spettatore pagante ho colto solo in parte il pathos e la vera essenza di questa storia. Un testo che scorre solo in parte, lento, quasi statico; dialoghi che, seppure fitti e diretti, non hanno un respiro tale da coinvolgere lo spettatore. Si ha la sensazione che, pur ascoltando temi ricorrenti, questi siano però affrontanti con approccio retorico e poco incisivo.
La produzione ha puntato molto sulla coppia Puccini-Marchioni, ma devo dire che la scelta non ha pagato pienamente.
L’esordio teatrale di Vittoria Puccini è stato nel complesso dignitoso, ma se dovessi descrivere con una sola immagine la performance dell’attrice utilizzerei quella di una gatta, sì, ma senza artigli. Partita discretamente grazie alla rappresentazione di una donna delusa, a tratti isterica, prigioniera di un matrimonio infelice, lentamente ha perso mordente e vivacità, quando invece avrebbe dovuto dare al suo personaggio, come il testo impone, diverse e delicate sfumature. Fossi un produttore la inviterei a studiare con dedizione, prendere magari qualche ripetizione e ripresentarsi solo più avanti per l’esame di riparazione.
Ripensando alla prestazione di Vinicio Marchioni, che ho avuto modo di apprezzare al cinema, in tv e lo scorso maggio anche a teatro, non posso che provare una forte delusione. Avevo grandi aspettative e in parte queste sono venute meno. Forse il ruolo imponeva una recitazione sobria, in punta di piedi, ma fin dall’inizio il personaggio di Brick è apparso poco nelle corde dell’attore romano. Una recitazione pulita, professionale, ma poco calda e incisiva che ha avuto però un momento forte e intenso nel dialogo con Paolo Musio, che ha dato prova di talento, personalità e intensità, riuscendo a prendersi con merito, insieme a Franca Penone, gran parte della ribalta scenica e l’apprezzamento del pubblico.
Il finale aperto, non particolarmente convincente e riuscito, soprattutto per la mancata empatia tra la coppia Puccini-Marchioni e il pubblico, lascia in bocca l’amara sensazione che, anche nelle migliori famiglie, la bugia molto spesso è il presupposto del quieto e sereno vivere.