Chiunque vi dica che avere diciannove anni sia una cosa fantastica è un imbecille. E lo dice perché non si ricorda com’era avere quell’età. Non si ricorda come ci si sente a essere costantemente arrabbiati, confusi e diversi. Sbagliati, sfigati, soli e sempre con qualcosa in meno rispetto agli altri. No, non se lo ricorda perché dopo va anche peggio. Dopo ci sono gli impegni, le responsabilità, il lavoro, la casa, la famiglia, persone di cui occuparsi… Il tanto desiderato pacchetto completo del “diventare adulti”. Peccato che io una parte del pacchetto l’avessi già ricevuta prima del tempo. E senza nemmeno chiederla. Alcuni di noi giungono a questo mondo a bordo di carrozze dorate trainate da cavalli bianchi, atterrando delicatamente su una morbida coperta di cashmere, e il loro cammino sarà per sempre disseminato di profumati petali di rosa, altri invece ci arrivano trascinati da una mareggiata, sbattuti dalle onde contro gli scogli, e raggiungono la riva boccheggiando, coi capelli pieni di alghe e sabbia. Devo specificare di quale gruppo facessi parte?
Confesso che dopo aver finito “Tutto quello che siamo” di Federica Bosco sono un po’ confusa. Durante tutto il libro, dal racconto della protagonista Marina, pensiamo di essere davanti a un caso di violenza familiare, con un padre-orco che maltratta i figli (e maltrattava, quando era in vita, la prima moglie) verbalmente e fisicamente. Un argomento delicato, difficile. Una situazione, delicata e difficile, che come a Mari, anche a chi legge sembra di difficile soluzione.
Poi arriva il finale, come un tir in corsa. E quel padre che ci eravamo figurati orco e manesco, ma non un manesco “normale” (due scappellotti li hanno presi tutti, crescendo, ma questo non significa che i genitori di tutti siano persone violente), un manesco pericoloso, da arresto, per molti versi, non è più tale. Alla fine l’orco assume caratteristiche più umane, si redime in quattro e quattr’otto, e questo è anche il tempo che serve a Marina per passare sopra a tutto quello che è stato. Due minuti.
Ecco due passaggi, distanti due pagine più o meno. Ditemi che idea vi fate, leggendo il secondo sapendo cosa è successo prima.
Mio padre spalancò la porta e venne dritto verso di me. Mi tirò in piedi per il collo della giacca e mi colpì ripetutamente in testa e sulla faccia. Ripetendomi “Disgraziata, brutta disgraziata”. […] Poi qualcuno o qualcosa strattonò mio padre e portò la sua furia lontano da me. “Brutto vigliacco ma che fai, picchi una ragazzina? Picchi tua figlia? Se la tocchi un’altra volta ti giuro che ti ammazzo io, ma te lo giuro”.
E non so come mi venne in mente, ma mi voltai e lo abbracciai. […] Poi sentii le sue braccia avvolgermi e per un attimo tornai a essere la bambina della foto, protetta e sicura in braccio a lui. E ci mettemmo a piangere. Piangemmo per la mamma, piangemmo per esserci persi, piangemmo per la paura che avevamo avuto, per il passato, per le ferite, per le brutte parole, per i rimpianti, le incomprensioni e le sfuriate, ma anche per la gioia di essere ancora vivi, di avere ancora tempo per rimediare, parlare, capirci. [..] Quella sera a cena ci divertimmo un sacco. […]
Allora, le cose sono due: o l’autrice ha gestito il finale in maniera pessima, decidendo di semplificare in maniera utopica e infantile una tematica che di semplice non ha niente, oppure per tutto il libro Marina ha vaneggiato, ingigantendo i comportamenti del padre, e rendendolo, per chi legge, un orco, quando invece tale non è. Delle due una. Non è possibile che un violento si redima in due giorni, che dal pestare la figlia a sangue si metta a impastare allegramente pizze per tutti (compreso il fidanzato di lei, che odiava fino a un attimo prima). Almeno, per me non è credibile.
Ecco spiegato perché, chiuso il libro, i sentimenti che hanno prevalso in me sono stati lo sconcerto e la confusione. Per pagine e pagine ho letto lo sfogo di quella che pensavo una ragazzina (che poi, ragazzina, a 19 anni non si è già un po’ grandi? Ma su questo punto torneremo tra un attimo) maltrattata, vessata, in pericolo e poi alla fine tutto si sistema con un’alzata di spalle. Da non poter lasciare la casa paterna per amore del fratellino di nove anni – perché come avrebbe fatto, il piccolo e angelico Filippo, senza di lei in quel posto orribile? Con quell’uomo dagli scatti d’ira continui e dal carattere impossibile come unico punto di riferimento? – a trasferirsi altrove col fidanzato e tanti saluti. Quindi Filippo è al sicuro adesso? Il padre non è più un pericolo? Ma allora perché prima sembrava che lei non si potesse muovere finché il fratello non avesse compiuto 18 anni? Non so, questa soluzione della storia non mi ha convinta per niente.
Personalmente anche la trama in sé per sé mi ha lasciata piuttosto scontenta. Scrivere una storia forte e triste con protagonisti personaggi giovani, una storia che racconti il brutto del mondo ma in modo da risultare credibile è possibile – il romanzo “Raccontami di un giorno perfetto” di Jennifer Niven ne è la prova lampante. Federica Bosco non ci riesce. La sua storia sembra questo: solo una storia. Non ha la forza della vita vissuta, non sembra, al lettore, qualcosa che possa succedere davvero. È tutto troppo caricato, tutto troppo strano.
Vogliamo parlare della matrigna Ilenia? Ma davvero può esistere, nel 2015, una donna come lei? Una che sposa un vedovo con figli e tratta poi quei figli, soprattutto la maggiore, come un ingombro? Che mette in atto veri e propri piani per screditare la ragazza agli occhi del padre? Che si diverte a fare la vittima per mettere l’altra in cattiva luce? In Cenerentola si vede una matrigna così, ma nella vita reale… bha.
Anche il fatto di usare il punto di vista di Marina, una scelta che capita spesso di vedere applicata, non paga. La prima parte del libro l’ho trovata persino noiosa, con tutto quel suo pensare e pensare e pensare. Pochi fatti, molte parole. Ho avuto la tentazione di saltare qualche passaggio di monologo interiore – e sono convinta non mi sarei persa niente, quanto a comprensione della trama generale. Brutto segno.
Che dire poi dell’immagine che dei “giovani” viene fuori da queste pagine: sconfortante è dire poco. Prima di tutto penso che aver immaginato personaggi più piccoli di età avrebbe potuto giovare al tutto, perché il 90% dei pensieri e delle azioni di Marina, Dario e per certi versi anche di Ginevra sono più adatti a dei 16enni che a 19enni-21enni. A 20 anni non è tardi per il conflitto genitori-figli? Per le ripicche? Per gli atteggiamenti infantili?
Conosco persone che a 20 anni si sono prese la responsabilità di mantenere una famiglia, hanno fatto figli e si sono messe a lavorare. Hanno deciso di crescere, in una parola. Per questo non posso mandare giù in nessun modo che il personaggio di Dario possa, in qualche modo, rappresentare la categoria degli under30. Alla fine si capisce che molti dei suoi atteggiamenti derivano da un malessere profondo, la sessualità negata e via dicendo, però è davvero troppo. Penso sia uno dei personaggi più irritanti, incomprensibili ed egoisti di cui abbia mai letto. Quella che definisce una sorella (Marina, nb) deve vivere con un uomo che la maltratta dopo che la madre è morta quando aveva 14 anni e lui cosa fa? Si lamenta tutto il giorno dei suoi problemi – ovvero che la madre vuole comprargli una casa, una tavola calda, garantirgli un futuro? Ma stiamo scherzando?
Con l’altra migliore amica, la bella e apparentemente scafata Ginevra, va un pochino meglio. Non me la sento di esprimere un giudizio sulle sue scelte di vita, perché anche questo l’ho visto succedere vicino a me è so per esperienza quanto sia difficile. Anche lei dimostra un egoismo unico, quando si tratta di scegliere tra le sue esigenze e quelle di Marina, ma d’altra parte non siamo un po’ tutti così, che tra noi e gli altri scegliamo sempre noi? (Magari anche no, ma il messaggio che passa dalle pagine della Bosco è questo).
Una parola anche sui rapporti interpersonali di Marina. Uno dei pochi elementi che ho davvero apprezzato del libro è stata la scelta dell’autrice di raccontare una storia come quella tra la protagonista e Christo, dove lui compare quando vuole, la usa e poi la dimentica, e lei non riesce a dire basta. L’ho apprezzato perché nella vita vera storie così succedono in continuazione (e no, non solo quelle facili vanno a letto con uno che non è il loro fidanzato), mentre nei libri, troppo spesso, sembra che il sesso e basta non esista.
Anche l’atteggiamento di Marina verso i sentimenti, quel suo sentirsi come un cane del canile, che ha bisogno di amore come l’aria e per questo si accontenta delle briciole ed elemosina, mi ha toccata. Forte, triste, ma vero.
La storia con Nicholas arriva come un fulmine a ciel sereno, troppo bella per essere vera, se non fosse che lui è fidanzato da una vita e non parla con Marina di quello che c’è, per lui, una volta tornato a casa – figurarsi se qualcosa poteva andare del tutto per il verso giusto. Un tantino improvviso, forse, l’amore della vita che ti sconvolge e sai che non potrai mai provare qualcosa di simile in futuro, però anche questo può succedere. E poi sicuramente le lettrici più giovani l’adoreranno, per cui…
Che dire. Scrivere una storia giovane, con un linguaggio fresco, per un pubblico giovane, è una scelta che oggi come oggi va molto di moda. Da qui a dire però che tutte le ciambelle vengono con il buco ce ne passa. Non bastano ingredienti validi, per costruire un successo. Prima di tutto bisognerebbe avere qualcosa da dire, e poi, soprattutto, riuscire a sviluppare l’idea con una coerenza. Qui manca senza dubbio qualcosa. Peccato.