ADOLESCENZIALE. AVVILENTE. RIDONDANTE
So che in questo momento, se per caso avete deciso di cliccare sull’articolo, state ancora fissando il titolo del libro di cui stiamo per discutere con stupore e sgomento.
E vi state chiedendo cosa mi abbia spinta, alla veneranda età di 30 anni meno poche settimane, a imbarcarmi nella lettura dell’ultimo romanzo di Federico Moccia, “Tre volte te“. Forse le fragole in copertina.
Scherzi a parte, fa male ammetterlo, ma ci sono storie che anche un lettore professionista, che tendenzialmente seleziona ciò che legge e gira alla larga dai prodotti scadenti, è curioso di sapere come vanno a finire.
Babi e Step non saranno Romeo e Giulietta, e per fortuna io non sono stata una fan sfegatata della serie iniziata con “Tre metri sopra il cielo” e proseguita con “Ho voglia di te” nemmeno ai tempi del liceo – no, non mi sono marchiata addosso frasi improbabili o immagini ancora più improbabili, non ho srotolato striscioni sopra i cavalcavia e non ho fatto gare folli in moto solo per spirito di emulazione. Però.
Però ci sono storie che hai visto nascere, che bene o male hanno viaggiato fuori dalla pagina quando anche tu scorrazzavi in giro con il primo motorino e il primo fidanzato, e quando vedi ricomparire a distanza di anni i nomi di certi personaggi la curiosità ha la meglio su qualsiasi pensiero razionale. E decidi di leggere quel nuovo libro, fosse solo per capire se i personaggi e lo stile dell’autore sono riusciti a maturare e crescere, come hai fatto tu.
Ebbene la curiosità di sapere come se la passassero Step, Babi e Gin da adulti mi ha sorretta nella lettura delle prime 5 pagine, la forza di volontà in quella delle successive 5. Esaurita la prima e la seconda non ho potuto far altro che chiudere il libro, e pazienza se come va a finire la storia dovrò andarmelo a leggere sul blog di qualcun altro.
Sì, incauto lettore che sei arrivato fino a questo punto, quella che hai davanti è una non-recensione, o meglio, la recensione di un libro che non solo non ho finito ma praticamente ho letto a malapena. Eppure vedi, anche così, quante cose ho da dire?
Ovviamente non potrei nemmeno volendo parlare della trama – e comunque non lo farei, perché va contro i miei principi fare anticipazioni e rovinare ad altri la sorpresa.
Voglio solo spendere due parole sui motivi che mi hanno spinta a dire “Basta così” dopo 10 pagine scarse.
Prima di tutto lo stile di Moccia. Se una storia leggera, di scarso spessore, una storia “da quindicenni” avrei potuto perdonargliela – e anzi, me l’aspettavo – quello che non sono riuscita a mandare giù è la pretesa di passare per un grande romanziere, la scrittura pomposa, ridondante, l’uso di mille aggettivi e descrizioni inutili solo per rendere le pagine corpose.
Se uno nasce tondo non può morire quadrato. Il pubblico giovane ha portato questi libri e questo autore al successo – duraturo oppure effimero non sta a me dirlo -, perché snaturarsi quindi? Per ambire a platee più acculturate e mature? Per zittire chi, di Moccia, ha sempre detto che in sintesi non sa scrivere?
Il risultato di questo sforzo di maturazione, del tentativo di trasformare il suo libro in un Romanzo con la erre maiuscola è per quanto mi riguarda clamorosamente fallito. La scrittura è farraginosa, monotona, lenta. Il perdersi di Step in descrizioni minuziose di quello che lo circonda – del circolo, delle persone, del cielo stesso – appare più un esercizio di stile dell’autore che una necessità legata alla trama. L’azione latita. Di parole, invece, ce ne sono anche troppe.
Che dire poi dei personaggi. Se Stefano Mancini alias Step nella sua nuova versione di squalo del mondo della tv mi ha lasciata perplessa ma tutto sommato mi avrebbe anche spinta ad andare avanti, la comparsa di Babi mi ha tolto ogni entusiasmo – o lo avrebbe fatto se non ci avesse già pensato prima lo stile di Moccia.
Si può essere tanti superficiali, bidimensionali, insulsi e irritanti in dieci righe scarse e quattro frasi in croce? Non oso immaginare come sia andata avanti la cosa – ma forse, se siete tanto masochisti da arrivare alla fine di “Tre volte te”, a questa domanda sarete voi a rispondermi.