Un film di Noah Baumbach. Con Dustin Hoffman, Adam Sandler, Ben Stiller, Emma Thompson, Elizabeth Marvel, Grace Van Patton. Commedia, 110’. USA, 2017
Evidentemente i capoccia di Netflix, al di là del prendersi bene cura dei loro interessi, nascondono sotto il doppio petto un cuore d’oro.
Se con il loro primo film – “Okja” di Bong Joon-Ho, ndr – hanno voluto far commuovere il pubblico raccontando la storia di una tenera amicizia tra una bambina e il suo super-maiale, con il secondo, “The Meyerowitz story” di Noah Baumbach, hanno voluto mettere al centro la famiglia, e parlare delle difficoltà di comunicazione.
Se la famiglia in questione è super allargata, con il patriarca Harold Meyerowitz (Hoffman), scultore, sposato quattro volte, padre di tre figli, Danny (Sandler), Matthew (Stiller) e Jean (Marvel) e attualmente legato all’eccentrica Maureen (Thompson), lo spettatore si prepari ad entrare in un vero caos.
I tre fratellastri, come ci tengono sempre a precisare questo dettaglio, non vanno d’accordo, e specialmente tra i due maschi c’è una continua competizione e gelosia per le attenzione dal padre.
Danny da ragazzo era un promettente pianista, ma una volta sposato ha scelto di fare il mammo e stare a casa con la figlia Eliza (Van Patten). Solo che, dopo il divorzio, la sua decisione si è dimostrata quanto meno avventata.
Matthew, invece, è un brillante e quadrato immobiliarista, anche lui separato, e costretto a usare Skpye per comunicare con il figlio
Infine abbiamo Jean, l’unica rimasta ancora sotto il tetto paterno, apparentemente incapace di crearsi un futuro, forse a causa di doloroso segreto nascosto nel suo passato.
Sarà il ricovero d’urgenza in ospedale del padre Harold a costringere i tre a confrontarsi e chiarirsi dopo anni.
Noah Baumbach si conferma un valente autore e paroliere, firmando una sceneggiatura densa, incalzante, brillante dove non c’è pausa tra un dialogo e l’altro.
La struttura narrativa divisa in capitoli mostra con efficacia le dinamiche e i contrasti all’interno della famiglia, senza però mai scadere nello stucchevole o nel melenso, ma mantenendo sempre toni ironici e freschi.
Paradossalmente il limite del film sta proprio nell’eccessivo utilizzo dei dialoghi, che per quanto ben scritti e bene interpretati alla fine risultano ridondanti e faticosi da seguire.
Il cast, stellare e talentuoso, riesce solo in parte a dare sostanza al potenziale della scrittura. A partire da Dustin Hoffman in avanti ci saremmo aspettati un contributo artistico maggiore. Tutti sfoderano una performance più che positiva, ma per così grandi attori questo sembra il minimo sindacale.
La regia di Baumbach è pulita, essenziale, di respiro televisivo, abile nel costruire un film di molte parole e sporadiche azioni, e al contempo dare ma dinamismo e brillantezza a una storia dal ritmo troppo compassato.
Ascoltarsi e comprendersi in famiglia è forse una delle cose più ardue ma come ci mostra l’agrodolce finale, quando si inizia a farlo, tutto diventa più semplice.