“The Fabelmans”: la lettera d’amore di Steven Spielbger al cinema

Un film semi-autobiografico nell'America degli anni '50, bello e meritevole ma non toccante

Un film di Steven Spielberg. Con Gabriel LaBelle, Michelle Williams, Paul Dano, Seth Rogen, Oakes Fegley. Drammatico, 151′. USA 2022

1952. Sammy Fabelman ha sei anni e al cinema non ci vuole andare, ha paura di affrontare quel mondo di giganti. La madre gli assicura che i film sono sogni indimenticabili, il padre lo rassicura descrivendogli il prodigio di una macchina che fa muovere immagini fisse. Sam esce dal cinema e l’avvenire è aperto. Recrutando come figuranti compagni di scuola e sorelle, comincia a girare western ed epopee belliche nel deserto dell’Arizona. Gli anni intanto passano e Sam, adolescente, scopre nel flusso dei suoi fotogrammi aspetti insospettabili della vita dei suoi genitori. Il padre, brillante ingegnere, vorrebbe seguire una promozione a Los Angeles; la madre, pianista che ha abbandonato la sua carriera per allevare i figli, vorrebbe restare a Phoenix. Il trasloco è inevitabile, il divorzio pure. Sam si rifugia nel cinema e in un’estate in 16mm prima di diventare grande e fare grandi film. 

 

Sammy – scusate, Sam (solo l’adorata madre Mitzi può chiamarlo Sammy) rapito dal cinema fin da bambino, coltiva per la settima arte una vera e propria adorazione, per non dire ossessione, tanto che comincia a girare i primi film fin da adolescente.

Quella che dallo stesso Steven Spielberg è stata definita una semi-autobiografia, ha sin dal titolo – “The Fabelmans”, che si potrebbe essere tentati, erroneamente, di tradurre come “l’uomo delle favole” – qualcosa di magico. Ma la magia non si limita a quello!

Tutto l’amore che un regista ha per quel mondo in cui spesso tende a perdersi, che ama costruire attraverso la sua immaginazione, è condensato in questo film, che al pubblico in sala alla Festa del cinema di Roma è piaciuto così tanto da far parlare (quasi) tutti di capolavoro, eppure… per me c’è comunque qualcosa che non torna.

In questo momento post-pandemico, in cui gli sceneggiatori sembrano avere in gran parte idee ridondanti o poco accattivanti, riuscire a catturare il pubblico con la storia di un ragazzino cinefilo degli anni ‘50, della durata di oltre due ore e mezza, ha del geniale.

Come ogni film di Spielberg che si rispetti, si parte da una storia “semplice”, che man mano si arricchisce di dettagli, personaggi e situazioni che finiscono per renderla indimenticabile.

Ottimo il cast, dove spiccano per bravura e intensità Michelle Williams nei panni di Mitzi, la mamma del protagonista, artista e infelice, connubio imprescindibile; David Lynch, più che convincente nel ruolo di John Ford e Judd Hirsch nel fenomenale cameo dello zio esuberante/pazzo, che sprona Sam a inseguire i suoi sogni.

Lo spettatore viene catapultato indietro nel tempo, all’inseguimento del sogno americano, proprio quel sogno che sarà la rovina dei Fabelman, costretti a continui spostamenti lungo la costa degli Stati Uniti.

Ed è proprio durante questi continui cambi di ambientazione, questi spezzoni di vita vissuta e sentita, di emozioni che dovrebbero colpire come un pugno allo stomaco che l’indifferenza emotiva che proviamo ci lascia perplessi. Ed ecco quel qualcosa che non torna di cui parlavo prima, che ci tormenta durante la visione ma anche dopo.

Al netto di questo difetto, “The Fabelmans” è un bel film, un film da vedere assolutamente al cinema per coglierne a pieno la magia. Un film che, in caso ce ne fosse bisogno, ci fa innamorare ancora una volta di Steven Spielberg e della sua visione.