Un film di Con Takara Kogawa, Keiki Kogawa, Chisato Kogawa, Takashi Kogawa. Drammatico, 79′. Francia, Giappone 2017
Sulle montagne del Giappone, una famiglia di quattro persone vive in una piccola abitazione circondata dalla neve. Una notte, mentre il padre esce come sempre nel buio per andare a lavorare al locale mercato del pesce, il figlio piccolo resta insonne e occupa come può il suo tempo tra i giochi. La mattina dopo, molto assonnato e con un disegno che ritrae nello zaino il mondo acquatico, non si avvia a scuola come la sorella, ma a una giornata di scoperta.
Arriva nelle sale italiane “Takara – La notte che ho nuotato”, un interessante progetto dei duo di registi franco-giapponese formato da Damien Manivel e Igarashi Kohei, presentato nel 2017 alla Mostra del cinema di Venezia.
Lo definisco un progetto interessante perché non è il tipo di film “attivo” a cui siamo abituati, ma piuttosto un lungo sguardo silenzioso su una giornata atipica vissuta da un bambino.
Non ci sono dialoghi – niente di niente! -, i (pochi) personaggi non si scambiano nemmeno una parola. Sembra che non abbiano bisogno di esprimersi verbalmente, complice anche la solitudine di un paesaggio innevato così bianco da sembrare quasi irreale. E mi viene da pensare che quando ci sono delle conversazioni, queste non ci vengano mostrate, forse perché stonerebbero con il tono minimalista di questo esperimento cinematografico. Ma gli altri suoni sono presenti e fanno da contorno all’avventura del piccolo Takara.
In cosa consiste questa avventura? Ogni mattina, prima dell’alba, il padre di Takara esce per andare a lavoro. La casa è ancora addormentata, fuori è buio, la neve è alta. Ma Takara si sveglia e fa un disegno per suo padre, prima di ripiombare nel sonno. Qualche ora più tardi, incamminandosi verso la scuola, finisce da tutt’altra parte, preso dai suoi giochi nella neve e vagamente insonnolito: l’avventura ha inizio.
Takara prende un treno, si appisola nella grande città, segue un camion, finché non arriva, sfinito, al mercato del pesce dove lavora suo padre. È possibile che quella fosse la sua destinazione fin dall’inizio ma anche che i piedi lo abbiano portato lì seguendo un inconscio desiderio di vedere il suo papà: non lo sappiamo. Quel che vediamo è un bambino coraggioso che non ha paura di scoprire l’ignoto, e questo è straordinario se si pensa che ha solo sei anni. Quello che è tipico dell’infanzia, invece, è la spontaneità con cui il piccolo si muove, senza chiedersi troppi perché.
La telecamera lo accompagna da vicino, lentamente, seguendo ogni suo passo in mezzo alla neve, tanto imbacuccato da sembrare un omino Michelin in miniatura. In tutta sincerità, lo accompagna anche un po’ troppo lentamente, rispettando più i tempi reali che quelli cinematografici di ogni suo gesto.
Sicuramente questo stile attento e silenzioso contribuisce al tono realistico del film, ma lo rende anche un esemplare di quelli che possiamo definire “film da festival”. La narrazione rimane piacevole e delicata, divisa in tre capitoli e strutturata circolarmente, e riesce a mostrarci il tenero rapporto tra un padre e un figlioletto che si vedono molto poco.