Una serie ideata da Laurie Nunn. Con Asa Butterfield, Gillian Anderson, Ncuti Gatwa, Emma Mackey, Connor Swindells, Kedar Williams-Stirling, Alistair Petrie, Mimi Keene, Aimee Lou Wood. Commedia. Regno Unito. 2019-in produzione
Cogito ergo sum, sosteneva Cartesio tra Cinque e Seicento. Io preferisco declinare la frase come “Dubito, ergo sum”, in modo particolare quando mi ritrovo, dall’alto della mia “veneranda età”, a recensire un teen drama televisivo.
I commenti che leggo online sulla terza stagione di “Sex education”, disponibile su Netflix dal 17 settembre, sono quasi unanimi nella loro positività. Ma io, da teledipendente d’annata, mi sento di portare avanti un discorso un po’ meno di parte e più razionale.
“Sex education” è stata indubbiamente una serie innovativa, fresca e brillante nello sdoganare il tema tabù del sesso tra i giovani, attraverso una sceneggiatura adeguata e personaggi autentici e credibili.
La prima stagione è stata unica, uno spasso, un gioiellino sotto ogni aspetto. Il cast si è imposto agli occhi del mondo, conquistando l’attenzione della critica e l’amore dei fan.
La seconda stagione, per definizione complicata dopo un tale successo, è riuscita tutto sommato nella missione di mantenere alto il livello. Gli sceneggiatori hanno allargato la cornice narrativa, dando più spazio ai personaggi cosiddetti “minori”. Ci sono state più storie da seguire e a cui appassionarsi – come quella tra Lily (Tanya Reynolds) e Ola (Patricia Allison) – e più tematiche delicate.
Le aspettative per la terza stagione erano altissime, visto anche il finale aperto della precedente. Non vogliamo fare spoiler sulla trama, quindi mi limiterò ad alcune considerazioni generali, che magari risulteranno scomode, sicuramente alternative rispetto al panegirico dominante online.
I primi tre episodi sono davvero deliziosi, divertenti, provocatori ma anche ben bilanciati e ben scritti. L’ironia inglese si sposa con il buon gusto, e non lascia spazio a scivoloni volgari o ideologici.
La stagione si apre con un’esplosione di sessualità e di fame di vita, con corpi che si cercano e si fondono, che ci piace vedere come una gioiosa risposta al periodo di restrizioni e distanziamento vissuto dai ragazzi in questi mesi.
La libertà sessuale e di pensiero sembra essere un fatto assodato al liceo Moordale, ma all’esterno tutto ciò risulta come inappropriato, fuori luogo. Il caos deve cessare, l’ordine e il decoro devono essere ristabiliti in una scuola che si affida alle donazioni private per la sua sopravvivenza.
Ed ecco la prima, importante novità introdotta dagli autori: al preside Groff (Alistair Petrie) subentra la giovane e ambiziosa Hope Haddon (Jemima Kirke), che si presenta ballando agli increduli ed entusiasti studenti riuniti in assemblea. Ma mai come in questo caso possiamo dire che l’abito non fa il monaco…
Jemima Kirke è perfetta nel ruolo della preside giovane, che si presenta agli studenti come una sorta di sorella maggiore per poi mostrare la sua vera pasta. Il personaggio si prende la scena scolastica per metà buona della stagione, incarnando il contro-canto conservatore e puritano di una generazione, e più in generale di una società, attenta alla forma e poco alla sostanza.
Dal quarto episodio l’impianto narrativo inizia a mostrare le prime crepe – o se preferite avvitamenti su stesso -, dando l’impressione che gli sceneggiatori non avessero ben chiara la direzione da dare alla loro creatura (forse anche in conseguenza del fatto che alle tre stagioni previste in origine se ne dovrebbe aggiungere almeno un’altra?).
Dopo una partenza divertente e briosa, la storia si perde. I personaggi, i rapporti, le amicizie, gli amori subiscono un continuo quanto frenetico stop and go. Ci sono aperture improvvise e allo stesso tempo brusche chiusure.
La sfera romantica appare diversamente schizofrenica, lasciando più dubbi che certezze. Il presunto triangolo tra Otis, Maeve e Isaac si esaurisce prima ancora di cominciare (quanto meno il personaggio interpretato da George Robinson non sarà di nuovo il più odiato sui social); e anche “l’agognata coppia” convince poco. Maeve e Otis sono più credibili quando sono lontani e impegnati in altre faccende – in questo senso, quasi inaspettatamente, è molto riuscito l’approfondimento sul personaggio di Ruby, ben interpretata da Mimi Keene.
Gillian Anderson/Jean Milburn, complice un avanzato stato di gravidanza, ricopre, purtroppo, un ruolo marginale rispetto alle due stagioni precedenti, anche se alcune delle sue scene sono tra le più esilaranti (come quella post-parto). Ma il colpo di scena finale (che non vi svelerò, ovviamente)? Personalmente mi è sembrato di troppo.
Eric (Gatwa) subisce a mio parere la peggiore involuzione di questo arco narrativo, diventando quasi una caricatura di se stesso – troppo egoista, troppo egocentrico, troppo tutto. In crescita, invece, il personaggio di Adam (Swindells). I suoi silenzi valgono talvolta più delle parole, e molte delle sue scene trasmettono una grande tenerezza – ma la storyline del cane…
Nel mondo policromatico della sessualità giovanile la new entry Cal Bowman introduce il concetto di “identità non binaria”. Lodevole il tentativo di parlarne in una serie tv, un po’ meno il risultato finale – confusionario e modesto, nonostante la buona prova recitativa di Dua Saleh.
Alla fine, otto episodi si sono rivelati troppi – oggettivamente gli ultimi due aggiungono davvero poco alla storia. La sensazione è che autori, regista e produttori non sapessero esattamente in che direzione spingere la barca. Nel dubbio, hanno cercato di tenere insieme tutto e tutti, in un finale opaco e “democristiano”, non all’altezza di una serie tanto rivoluzionaria e potente. Almeno per due stagioni.