“Rush”: Lauda e Hunt, una rivalità sportiva che è diventata leggenda

Chris Hemsworth e Daniel Brühl nel film di Ron Howard che riporta in vita il mondo delle corse che fu

Un film di Ron Howard. Con Chris Hemsworth, Daniel Brühl, Olivia Wilde, Alexandra Maria Lara, Pierfrancesco Favino. Sportivo, 123′. USA, Gran Bretagna, Germania, 2013

L’austriaco Niki Lauda e l’inglese James Hunt s’incontrano per la prima volta sui circuiti di Formula 3. Uno è metodico, razionale, non particolarmente simpatico; l’altro è un playboy, che si gode la vita e corre come se non ci fosse un domani. La loro rivalità diverrà storica e segnerà una stagione incredibile della Formula 1, fatta di drammi indelebili e miracolose riprese.

 

Nonostante lo sport sia uno dei temi che più appassionano il pubblico a livello mondiale, il cinema non ha cavalcato l’onda come ci si sarebbe potuti immaginare. Tolti i film per adolescenti – “Ragazze nel pallone”, “Sognando Beckham” – e qualche storia made in Usa legata prevalentemente al baseball – “Moneyball” è l’ultima uscita – di sport al cinema se n’è visto il giusto.

Il bello di “Rush” di Ron Howard, quindi, è prima di tutto che si inserisce in una specie di vuoto. Formula 1 e grande schermo possono legare? Dopo aver visto questo film, la risposta che viene subito in mente è: “Sì”.

Questo è anche un film che si prende dei rischi, altro punto a suo favore. Le storie intrecciate dei due protagonisti sono inframezzate da prove libere, vita di scuderia e gran premi. Non era scontato che questa presa diretta sul mondo delle corse funzionasse.

Ma le vicende di Niki Lauda (Brühl) e James Hunt (Hemsworth) sono così coinvolgenti, sanno prendere talmente tanto, che i GP non disturbano. Anzi. Si finisce per fare il tifo come se i piloti stessero correndo adesso, come se non fosse già tutto scritto. Pur non essendo un’appassionata di automobilismo, per due ore mi sono sentita una tifosa. E penso che questo non sia un risultato da poco.

“Rush” non parla solo di una rivalità sportiva diventata leggendaria, è anche la rappresentazione di due stili di vita e di due modi di vedere la professione di pilota e, più in generale, il mondo opposti e speculari.

Lauda è controllato, calcolatore per certi versi. Piacere alla gente non gli interessa, e non stare simpatico a nessuno, per lui, è quasi un vanto. Per Lauda correre è una fonte di guadagno, e come dice lui stesso: “Se potessi fare più soldi in un altro modo, se sapessi fare altro, lo farei”.

I rischi di una corsa non devono mai superare il 20%, perché Niki non rischia la vita – ma poi corre in Germania e rimane vittima di un incidente terribile che lo lascia sfigurato per sempre. Dopo l’incidente, la sua volontà di tornare al volante fa quasi paura. Quando è il momento di dire basta? Quando troppo è troppo?

James Hunt è la sua nemesi, innamorato della vita, delle belle donne, del rischio. Correre in macchina lo fa sentire pericolosamente vicino alla morte, ed è questo per lui il senso di fare il pilota. Per quanto io facessi il tifo per lui fin dall’inizio, il film evidenzia anche il suo essere autodistruttivo e la sua incapacità – o non volontà – di pensare a lungo termine.

Dopo aver vinto il campionato del mondo nel 1976 sarà incapace di rimettersi a lavoro per confermarsi. Correrà solo per un altro anno, e nel 1978 annuncerà il ritiro. La professionalità e l’abnegazione di Lauda sono quello che lo porterà a ripetersi nei successi. Per Hunt, invece, aver dimostrato di poter vincere una volta è sufficiente.

Razionalmente si dovrebbe concordare con il pilota della Ferrari e con la sua visione, ma invece, quando Lauda e Hunt si incontrano nell’hangar, si finisce per dar ragione al britannico. Se tutto si riduce a un calcolo, a delle tabelle di marcia da rispettare, a una serie di numeri, dove va a finire lo sport? La magia? Con tutti i suoi eccessi, ci sentiamo tutti un po’ Hunt – persino il calcolatore Niki Lauda.

Ovviamente non mi diede ascolto, per James vincere un campionato era stato sufficiente, aveva dimostrato quello che voleva dimostrare a se stesso e a tutti quelli che dubitavano di lui e due anni dopo si ritirò. Quando lo rincontrai sette anni dopo a Londra, io di nuovo campione e lui commentatore per la tv, era scalzo su una bici con una ruota a terra, viveva ancora ogni giorno come se fosse l’ultimo. Quando seppi che era morto di infarto a 45 anni, non ne fui sorpreso, mi fece solo tristezza. La gente ci ha sempre visto come due rivali, ma lui mi piaceva, era una delle poche persone che apprezzavo e una delle pochissime che rispettavo e ancora oggi rimane l’unico che abbia mai invidiato.