Come vi potrà dire ogni lettore che si rispetti, il sequel di un romanzo molto amato rappresenta sempre una bella sfida. Dopo aver apprezzato uno scrittore, il suo stile, la sua storia, infatti, il rischio di restare delusi dal “capitolo due” è alto. “Colpa” delle aspettative, dell’autore che cercando di cavalcare l’onda produce solo una pallida imitazione del primo libro, di tante cose.
Sia come sia, “La condanna del sangue. La primavera del commissario Ricciardi” di Maurizio De Giovanni – che ho letto dopo poche settimane da “Il senso del dolore” (qui la recensione) – ha confermato il teorema. Tanto il primo romanzo mi aveva entusiasmata, tanto questo mi ha lasciato freddina, dubbiosa, a tratti persino delusa.
Lo stile poetico e magico di De Giovanni è ancora lì, lo si percepisce a tratti, soltanto che stavolta un po’ si perde nella ripetitività, nella monotonia complessiva.
Non credo che sia un male “fare il punto” in un romanzo parte di una serie – anche quando si tratta di gialli -, dare degli elementi di base così che anche chi non ha letto il capitolo uno possa capire di cosa si sta parlando e non sentirsi perso. Ho apprezzato persino le brevi pennellate con cui l’autore ha spiegato i personaggi, chi è cosa, cosa è capitato a chi.
Non è questo il problema. Il problema è che ne “La condanna del sangue” la trama latita. L’azione fa fatica a ingranare, si perde quasi nel contesto. Pagine e pagine di divagazioni, di scene e personaggi secondari, marginali – se non inutili – e il caso vero e proprio se ne sta da una parte, aspettando paziente di venir risolto in quattro battute finali.
Non lo nego, mi sono ritrovata in più di un’occasione a sbuffare annoiata. Soprattutto quando Ricciardi “interagisce” con Enrica di là dalla finestra, e lei rassetta, ricama ed elucubra su questo fantomatico amore che non ne vuole sapere di fare passi in avanti.
Che ci posso fare, io scene così, alla Penelope che aspetta un fantomatico Ulisse, che però non è partito per mare ma è soltanto convinto di non meritarsi un briciolo di felicità e quindi si limita a osservare – e soffrire, e far soffrire – di là da un vetro, non le concepisco proprio!
Oppure le concepirei se i protagonisti avessero 10 anni, non trenta suonati. Se nel primo romanzo si avvertiva tutta la sofferenza del commissario, e la situazione aveva le note del poetico oltre che del tragico, questa volta è solo noia allo stato puro.
Non parliamo poi della scena del commissariato, dove il Ricciardi dagli occhi di vetro, riflessivo e impassibile si è sciolto come una candela alla fiamma… Ho trovato il tutto poco credibile, a tratti stucchevole. Se poi leggendo le trame – e i commenti dei lettori – delle prossime indagini vedo che le cose su questo versante non faranno che peggiorare quasi mi passa la voglia di leggere un terzo libro. Ma vedremo.
Ho apprezzato molto di più la figura di Maione, anche se la sua storia parallela – Filomena, il figlio, lo sfregio, i vicini di casa rancorosi – alla fine è una sorta di vicolo cieco. Oppure, meglio, un caso potenziale che però non scoppia mai.
Noi, da lettori onniscienti, vediamo il quadro completo e uniamo i puntini. I personaggi, almeno in apparenza, no. Così Ricciardi non sa chi abbia spinto il muratore di cui sente il lamento, prova un briciolo di pena per lui, e passa oltre. Maione aiuta invece a mettere a posto le cose per la giovane figlia del morto, convinto di essere nel giusto. I due assassini la fanno franca – e a noi, alla luce dei fatti, nemmeno dispiace più di tanto.