Sconclusionato. Pazzo. Malausseniano
Sono stata molto combattuta su come iniziare questa recensione… Quando ho letto della prossima uscita del libro “Il caso Malaussène. Mi hanno mentito” di Daniel Pennac, solo a vedere quel certo nome scritto in copertina e immaginare quindi che una serie che credevo conclusa avrebbe ripreso vita, mi sono sentita bene. Esultante. Esaltata quasi.
Non ho pensato – o non ho voluto pensare, chissà – che qualche volta, se un ciclo è chiuso, è bene lasciare che resti tale, non riaprirlo, non cedere alla tentazione… perché spesso il revival è una tale delusione che finisce per rovinare anche il ricordo positivo che avevi di tutto ciò che c’era stato prima.
Questo discorso generico vale anche e soprattutto quando si parla di film, serie tv e libri: i sequel, sequel dei sequel, e sequel dei sequel dei sequel che oggi vanno tanto di moda nove su dieci si rivelano essere vere pugnalate al cuore per gli appassionati – la saga di Alien è un caso tra tanti, ma ne potremmo fare a decine se non di più.
Adesso, non sto dicendo che il nuovo libro di Pennac sia totalmente da buttare però… ignorare alcune difetti è impossibile, anche per chi, come la sottoscritta, ha amato questi personaggi e questa storia sin dagli albori.
Correva l’anno 1991 quando in Italia Feltrinelli pubblicò per la prima volta “Il paradiso degli orchi“, esordio letterario di Benjamin Malaussène, di professione capro espiatorio, e della sua strampalata e multiforme famiglia.
Come ha detto lo stesso autore nell’incontro al Salone del libro di Torino dove è stato protagonista, c’è una musicalità, in Malaussène, un tempo del racconto che è del tutto originale e che provi il desiderio di riscoprire, di riascoltare e rivivere, dopo un po’.
Lui, almeno, ha avvertito questa necessità, per questo ha ripreso in mano storia e personaggi dopo ben diciotto anni. Così dice.
È che queste storie hanno una cifra stilistica che è solamente loro, un loro ritmo e ragione di essere, e che questo nuovo romanzo piaccia o meno non si può negare che Pennac sia riuscito a ritrovarlo, a riproporlo al lettore.
“Il caso Malaussène. Mi hanno mentito” suona come i libri che lo hanno preceduto, è permeato della stessa unicità e magia e orrore degli altri cinque – o sei, se vogliamo includerci anche “Ultime notizie dalla famiglia“.
Queste storie sono fiabe. No, sono tragedie. No, sono farse grottesche. No, sono racconti terribilmente realistici. Sapete qual è il bello? Che nessuna definizione di quelle che ho appena dato è sbagliata. Perché i libri di Malaussène sono tutto questo.
Sono storie con personaggi fiabeschi, eppure tremendamente calati nel reale. Sono storie esagerate, che si ha sempre il dubbio che non possano essere vere. Almeno finché non ritroviamo in esse, portati ai massimi termini, tutti i mali della società contemporanea.
Sono storie simboliche, quello sì, dove un tono scherzoso, talvolta farsesco e grottesco, maschera una critica – o meglio, un’osservazione – feroce del presente.
Tutto questo ritorna in “Il caso Malaussène. Mi hanno mentito“. Cosa c’è che non va nel libro, quindi? Due cose.
La prima è che leggendo si ha la sensazione che tutto sia stato scritto con il preciso obiettivo di far felice il lettore, di riconquistarlo e riavvicinarlo alla serie. C’è una sorta di auto-compiacimento e auto-esaltazione, nelle pagine, una costruzione fatta ad hoc per solleticare la fantasia e l’apprezzamento di chi, i vecchi libri, li ha amati.
Il secondo punto è il finale. Personalmente trovo odiosi i romanzi che non finiscono, quelli che lasciano tutto in sospeso e obbligano quasi chi legge ad acquistare anche il successivo – perché ovviamente ci sarà un successivo – per capire come va a finire la storia.
Non sono romanzi dal finale aperto in senso classico, dove la storia sfuma e si lascia spazio alle interpretazioni, non sono nemmeno romanzi alla Harry Potter, dove per avere il quadro complessivo della vicenda devi arrivare alla conclusione dell’intera saga, ma ogni capitolo ha senso a sé stante, può essere letto anche da solo.
No, sono romanzi commerciali. Punto. Romanzi scritti con il preciso intento di catturare il lettore, incuriosirlo, e dopo lasciarlo lì, con un pungo di mosche, a chiedersi quanto tempo dovrà passare prima di leggere il continuo della storia – perché qui non si può parlare di libro concluso, libro autosufficiente. Questo libro avrà un senso solo messo insieme a quello che verrà.