Caro lettore, devo farti una confessione, sperando che il caporedattore Turillazzi, impegnata com’è nei miracolosi e faticosi editing dei miei pezzi da Venezia, non si soffermi troppo su questo in particolare.
Io amo la vita dei festival: mi piace vedere anche cinque film al giorno, partecipare alle conferenze stampa, scambiare due battute con vip e addetti ai lavori, far conoscere, con dignitosa professionalità, Parole a Colori.
Faccio volentieri qualche piccolo sacrificio, rinuncio a ore di sonno per scrivere i miei pezzi in tempi rapidi, mangio schifezze al volo tra un impegno e l’altro. Faccio del mio meglio, insomma, ma anche a me capita di accusare la stanchezza. Sono momenti brevi, poi stringo i denti e riparto di slancio.
Il momento down di Venezia 74 l’ho vissuto durante la proiezione delle pellicole “Thrist Street” di Nathan Silver, uno degli eventi speciale delle Giornate degli autori, presentato in collaborazione con il Tribeca di New York, e “Sweet country” di Warwick Thornton, in concorso.
La prima l’ho vista interamente, dalla seconda sono scappato dopo circa un’ora.
Sono brutti film? Forse, ma non mi sento di affermarlo con certezza, dato che non ho seguito con completa attenzione nessuno dei due. Qualche parola sul cast e la trama.
“Thirst street” è un film di Nathan Silver. Con Anjelica Huston, Damien Bonnard, Lindsay Burdge. Commedia, 82′. Francia, USA, 2017
La hostess americana Gina (Burdge) vive in una sorta di paralisi emotiva, in seguito al suicidio del compagno. L’incontro con il sofisticato e affascinante bartender francese Jerome (Bonnard) la porterà a uscire dal guscio. Trasferitasi a Parigi, accecata da questo amore non ricambiato, Gina si ritrova sull’orlo del baratro quando una ex di Jerome ricompare.
“Sweet country” è un film di Warwick Thornton. Con Sam Neill, Bryan Brown, Thomas M. Wright, Matt Day, Ewen Leslie, Anni Finsterer. Western, 112′. Australia, 2017
L’aborigeno Sam vive nella fattoria del “bianco” Fred, in relativa armonia, insieme alla moglie Lizzie. Ma intorno a loro, nell’Outback australiano qui narrato come il corrispettivo del Far West, gli aborigeni sono gli indiani: privati della propria terra, dei propri diritti e della propria libertà, e ridotti ad una schiavitù identica a quella che opprimeva gli africani importati negli Stati Uniti. Quando nella zona si trasferisce Harry, un reduce di guerra gonfio di rancore e di aggressività repressa, il fragile equilibrio fra i proprietari terrieri anglosassoni e i loro servi aborigeni salta, e costringe Sam ad una fuga attraverso il cuore del Paese, insieme a Lizzie.
Non mi sento di arrischiarmi in una recensione puntuale, posso solo dire che le due pellicole, magari bellissime e coinvolgenti da svegli e riposati, nel contesto di un festival risultano difficili da seguire. Probabilmente in questo senso incidono scelte drammaturgiche e di messa in scena non proprio felici.
Dovete fidarvi delle mie sensazioni? L’ultima parola sta a voi, come sempre, ma spero almeno di avervi instillato un piccolo dubbio.
Adesso vado a scolarmi un termos di caffè, pronto per tornare in pista con entusiasmo e reattività rinnovate.
Mi raccomando, non un parola con il direttore.