Un film di Shaka King. Con Jesse Plemons, Daniel Kaluuya, Lakeith Stanfield, Martin Sheen, Dominique Fishback. Biopic, 126′. USA 2021
A Chicago, verso le fine degli anni Sessanta, il criminale minorenne Bill O’Neal accetta di fare l’informatore per l’FBI dopo il suo arresto. Infiltrato da un agente nell’influente Black Panther Party, O’Neal scala le gerarchie del partito e si avvicina al leader Fred Hampton, prima arrestato e poi liberato in attesa dell’appello. Militante di giorno e traditore stipendiato la notte, Bill vive in maniera tormentata la sua doppia natura, da un lato aderendo alla visione politica di Hampton ma dall’altra contribuendo in maniera decisiva alla sua violenta uccisione, avvenuta per mano dell’FBI nel dicembre 1969.
Tradire una persona che si fida di noi è probabilmente uno degli atti più spregevoli che possiamo compiere – non è un caso che Dante collochi questa categoria di peccatori nell’ultimo cerchio dell’Inferno, il “peggiore”, potremmo dire.
E nella bocca stessa di Lucifero, insieme a Cassio e Bruto, per restare in tema dantesco, troviamo lui, Giuda, IL traditore per eccellenza. Colui che, secondo i Vangeli, vendette il suo benefattore, Cristo, per trenta denari con un bacio. E che dopo, travolto dal rimorso e dal senso di colpa, si impiccò.
La figura biblica dell’apostolo, tradimento e senso di colpa sono i punti centrali della sceneggiatura di “Judas and the Black Messiah” di Shaka King, che arriva in streaming nel nostro Paese a poche settimane dalla notte degli Oscar – dov’è in lizza come miglior film.
Sull’onda emotiva dell’uccisione di George Flyod, il 25 maggio, negli Stati Uniti sono esplose nuovamente le proteste e la mai sopita “questione razziale”. Hollywood, non ci pronunciamo se per reale convinzione o per intercettare il favore del pubblico, è scesa in campo con una serie di film a tema – per citarne un paio, “Il processo ai Chicago 7” e “One night in Miami”.
“Judas and the Black Messiah” ha il merito narrativo, creativo e stilistico di discostarsi in larga parte dai cliché e dagli stereotipi di genere, raccontando da una prospettiva insolita il movimento Black Panthers ed evidenziando come, già negli anni ‘60 e ’70, esistessero molti gruppi di protesta, animati da personalità diverse e con visioni differenti, tutt’altro che uniti.
Shaka King descrive i rapporti umani oltre che politici all’interno del movimento con sguardo realista, superando il tradizionale approccio ideologico da duri e puri.
In questa storia Giuda è Bill O’Neal (Stanfield), un ladruncolo d’auto colto in flagrante e costretto dall’FBI a diventare un infiltrato. Bill ruba per sopravvivere, non ha alcun interesse politico ma è abile nel fingersi ciò che non è. Questo suo “talento” viene notato dall’agente speciale Roy Mitchell (Plemons), che decide di sfruttarlo per fare carriera.
Gli incontri segreti tra O’Neil e Mitchell sono sicuramente uno dei punti di maggiore forza narrativa e pathos del film, grazie al talento dei due interpreti. In questi scambi intensi, giocati sugli sguardi e sui silenzi, si esplicita da una parte il continuo cambio di livello dell’operazione di copertura, dall’altra come entrambi non siano che pedine in un gioco più grande.
Il “Messia nero”, invece, è Fred Hampton, leader visionario delle Pantere nere di Chicago (interpretato dall’intenso Daniel Kaluuya, miglior attore non protagonista ai Golden Globe). Hampton comprese prima degli altri che solo unendo le forze sarebbe stato possibile vincere. Per questo cercava il dialogo, e un punto d’incontro. E rappresentava un grande pericolo agli occhi di J. Edgar Hoover (un bravissimo quanto inquietante Martin Sheen).
Il racconto della vita e della morte violenta di Hampton è filtrato nel film dallo sguardo di O’Neal, il traditore, che pur intuendo le tragiche conseguenze delle sue continue delazioni non ha la forza di opporsi.
“Judas and the Black Messiah” ci porta nel cuore del movimento Black Panthers, e lo attraverso un racconto puntuale, attento, realistico eppure anche troppo dispersivo, lento e ripetitivo. La sensazione è che il film duri troppo, e che ridurre alcune storyline per dare invece maggiore spazio agli agenti dell’FBI, appena abbozzati, sarebbe stata una buona idea.
Il film, che al dramma unisce la spy story, è il racconto di un tradimento laico, messo in atto, più che contro una persona specifica, contro un’ideale: l’uguaglianza.
Hampton non si sottrasse mai alle proprie responsabilità, andando anche in carcere, e fino all’ultimo considerò O’Neal un amico leale. O’Neal, di contro, continuò a fare l’informatore per l’FBI anche dopo l’assassinio del leader. Ma nel 1989, quando venne reso pubblico il ruolo da lui svolto in quei tragici eventi, si suicidò. E la parabola di Giuda si chiuse.