Intervista a Shannon Murphy, regista del film rivelazione “Babyteeth”

I colori al neon e l'estetica d'ispirazione asiatica, l'importanza del casting e la sintonia con gli attori

Con il suo esordio alla regia “Babyteeth”, basato sull’omonima opera teatrale del 2012 di Rita Kalnejais, anche autrice della sceneggiatura, ha spiazzato un po’ tutti. Dopo il successo riscosso alla Mostra del cinema di Venezia, Shannon Murphy presenta il suo film anche al London Film Festival.

Una forte personalità e il coraggio di rischiare quando si tratta di cinema: sono queste le caratteristiche principali della Murphy, che in “Babyteeth” ha riversato tutto il suo bagaglio personale e professionale.

LEGGI ANCHE: La recensione del film “Babyteeth”, premiato alla Mostra del cinema di Venezia

Cresciuta tra Hong Kong (la sua ossessione per i colori al neon probabilmente viene da qui), Singapore, l’Africa e l’Australia la regista cerca con le sue opere di infrangere non soltanto il famoso quarto muro che separa attori e pubblico ma anche ogni cliché di genere.

E proprio da questo partiamo a parlare, nella tavola rotonda che la vede protagonista a Londra.

 

Leggendo la sinossi, “Babyteeth” può sembrare un film piuttosto banale, ma poi, guardandolo, ci si rende conto che contiene molte idee innovative. Come sei riuscita a stravolgere così tanto le aspettative del pubblico?

Credo che quando si ha a che fare con dei commediografi innovativi come Rita Kalnejais, con persone che raccontano storie al passo coi tempi, sia quasi automatico riuscire a fare qualcosa di diverso senza nemmeno accorgertene. Non sono dovuta andarmi a cercare chissà quale prospettiva nuova, perché nel testo c’era già tutto. Personalmente, io lavoro con un team creativo e avevo posto come sfida quella di cercare di fare qualcosa che non fosse mai stato fatto prima e, insieme, abbiamo scelto “Babyteeth”. Leggendolo non l’ho trovato affatto banale e questo mi ha di certo aiutato nella scelta. In generale, comunque, non credo che farò mai film appartenenti a un genere troppo definito o che uno spettatore sappia già sin dall’inizio dove andranno a finire. Non mi interessa questo in una storia.

Che approccio hai usato per far sì che, per quanto anticonvenzionale, “Babyteeth” riuscisse a creare una certa empatia col pubblico e a mantenerla poi fino alla fine?

Sono una grande fan delle tecniche brechtiane e penso che, se usate in maniera corretta, la ricompensa emotiva sia molto forte, indipendentemente dal tipo di storia che si racconta. Non vuol dire che lo spettatore debba sentirsi necessariamente disconnesso dalla storia però non vuol dire neanche che lo si debba accompagnare per mano fino alla fine. Credo ci sia un modo corretto per bilanciare questi due aspetti, mantenendo un legame genuino con lo spettatore che poi fa sì che si riesca ad avere un responso emotivo dallo stesso.

È seguendo questa idea che hai scelto di rompere il quarto muro, con Milla che guarda direttamente lo spettatore?

Assolutamente sì. Quello che amo di quei momenti è il fatto che siano tutti pensati per Milla, per far sì che lo spettatore, dopo averla conosciuta, potesse penetrare anche la sua anima e capire cosa succede dentro di lei. All’inizio sono usati in maniera giocosa, per mostrare cosa prova in momenti diversi della storia, ma poi assumono un carattere quasi spirituale.

E la divisione in capitoli invece?

I capitoli erano già nel copione di Rita, ma me ne sono accorta solo quando l’ho riletto. Naturalmente ho cambiato qualcosa qua e là ma sin dal primo momento mi hanno creato un nodo allo stomaco. Dopo essermi incontrata con Rita di persona a Londra, ho deciso di mantenerli e usarli nelle transizioni, per dare un senso di temporalità a una storia in cui ti chiedi spesso quanto tempo resti ancora a Milla da vivere. Per non parlare del fatto che contribuiscono a creare quel senso di ironia che interrompe un po’ i toni drammatici della vicenda.

Che cosa ti ha guidato nella tua scelta di colori così vibranti e accesi per la fotografia?

Penso di aver cercato, attraverso i colori, di trasmettere le emozioni e le sensazioni dell’adolescenza, un momento in cui tutto è accesso ed elettrico e le cose si vedono a una frequenza molto diversa. Volevo che i colori comunicassero questo, rimanendo in sintonia con i ragazzi di oggi, che sono molto più coraggiosi nelle loro scelte di stile e osano cromaticamente molto di più rispetto al passato. Personalmente, sono ossessionata dai colori, i miei lavori teatrali sono sempre stati molto colorati e musicali. Poi sono anche cresciuta a Hong Kong circondata dalle luci al neon. Forse sono rimasta intrappolata nella mia adolescenza, ma mi piacciono le cose forti, che ti arrivano dritte in faccia. In più, i colori dovevano riflettere la personalità di Milla che, nonostante tutto quello che sta attraversando rimane la luce più splendente nella stanza. Volevo che le immagini riflettessero il più possibile questo fatto.

Una delle scene di maggiore impatto, anche visivo, è sicuramente quella del ballo. Come l’hai vista, costruita e sentita tu?

Sulla costruzione visiva di quella scena abbiamo lavorato tanto e non sapevamo bene come sarebbe venuta fuori fino al momento in cui l’abbiamo girata. L’idea era quella di far emergere una Milla non tanto abbattuta dal rifiuto di Moses, ma quasi più forte e galvanizzata, come volesse dire: “Chi se ne frega di lui, io passerò lo stesso una bella serata”. In generale, per quella scena volevo qualcosa di diverso da quello che siamo abituati a vedere nei film, volevo un senso di straniamento. Sono partita dalla mia esperienza, ispirandomi a una festa alla scuola d’arte drammatica, durante la quale pensavo che tutti fossero molto fichi e facessero cose molto interessanti. La scelta di usare le maschere è venuta a una mia amica dei tempi della scuola. L’ho invitata sul set ed è stata lei che ha proposto quel particolare design.

Anche la colonna sonora, questo mix di contemporaneo e classico, è molto particolare. Cosa ti ha guidato nella scelta dei brani?

Ogni brano ha un po’ la sua storia ma in generale volevo che il background musicale della famiglia risultasse credibile. Per esempio, la scelta di “Come My Way” è dettata dal fatto che avevo bisogno di un pezzo che solo uno come Gideon potesse conoscere ma che fosse anche adatto a far capire come lui sia, in fin dei conti, la famiglia che Milla non ha mai avuto. La canzone finale, invece, l’ho sentita per la prima volta in un programma per bambini e, in fase di montaggio, ho deciso di usarla dopo tante riflessioni per ritornare, in un certo senso, all’infanzia di Moses e anche per trasmettere quel senso che la bambina dentro Milla era finalmente libera.

Shannon Murphy durante gli afternoon tea al London Film Festival.

Moses è un personaggio decisamente riuscito. Toby Wallace, che lo interpreta, ha vinto il premio Marcello Mastroianni alla Mostra del cinema di Venezia, segno evidente di una scelta riuscita. Che cosa ti ha colpito di lui, come attore?

Io vivo da sempre in sala prova, sin da quando sono piccola, e ho sviluppato nel tempo una vera ossessione per il casting perché penso sia importante, per il modo in cui io faccio i miei film, trovare un attore che sia organico, fuori dal comune e che non abbia paura di prendersi dei rischi. Nel caso di “Babyteeth”, sapevo che le riprese dovevano essere veloci e che avrei dovuto centrare il cast per riuscirci. Toby è un attore straordinario, che avevo già visto in “Romper Stomper”, ma è soprattutto un ascoltatore eccezionale. Per Moses, che è fondamentalmente generoso e buono, avevo bisogno di un attore come Toby che non giudicasse in nessun modo il suo personaggio.

E per quanto riguarda il personaggio di Milla? Cosa ti ha convinto a scritturare Eliza Scanlen?

Quello che mi ha colpito di lei è la grande varietà di cose che può fare, fatto abbastanza terrificante per un regista. Ma Eliza è un’attrice che può fare veramente di tutto.

E come l’hai preparata per la parte?

È stato importante per me passare del tempo con lei per parlare, analizzare il copione e prepararla. Eliza è un’attrice molto attenta ai dettagli, prende un sacco di note e ha persino imparato a suonare il violino in due settimane. Per entrare nella parte, spesso mi mandava dei video in cui ballava al ritmo di musiche diverse e poi, insieme, li guardavamo per capire in quali aspetti emergesse Milla. Abbiamo fatto anche un lavoro molto accurato sui costumi, scegliendo insieme i vestiti che meglio potessero sottolineare la transizione e i cambiamenti di Milla.

Ben Mendelsohn ha un curriculum sicuramente più consistente a livello internazionale dei giovani colleghi e non ha bisogno di presentazioni. Cosa ti ha convinta a sceglierlo per il ruolo di Harry?

Ho visto un video in cui Ben ballava in uno show, un video che mi ha commossa. Ho capito di aver bisogno di quella profondità emotiva per il mio Harry e da lì l’idea di scritturarlo è diventata un’ossessione.

“Babyteeth” è un film profondo, e fortemente connesso con il tuo vissuto e la tua poetica come regista. Ma c’è una scena in particolare a cui se più legata?

Penso che la scena a cui sono più affezionata sia quella del cuscino. È una scena molto lunga e ho sempre pensato che, probabilmente, sarebbe stata tagliata per accorciarla, ma alla fine funzionava così bene che è rimasta. È una scena talmente intima e toccante che ho sentito sin dal giorno che l’ho girata che avrebbe funzionato. È una scena che non mi stanco mai di vedere!