Dopo un anno da protagonista, prima al Torino Film Festival 2018, poi nelle sale italiane, “Ovunque proteggimi” del regista Bonifacio Angius ha raggiunto anche le fredde coste inglesi nell’ambito di Cinema made in Italy, il festival che porta a Londra il meglio della cinematografia italiana.
Il film è un’indagine che non conosce mezze misure su personaggi che cercano continuamente di far pace con i propri demoni, mentre fuggono da una realtà ostile attraversando i caldi paesaggi di un’insolita Sardegna.
Incuriosita dalla pellicola, ho incontrato Bonifacio Angius in un sabato pomeriggio piovoso, pochi minuti prima della proiezione. Ci si accorge subito che “Ovunque proteggimi” riflette il carattere del suo regista: Angius infatti è particolare, e ha una visione del cinema molto originale. Di questo e molto altro abbiamo parlato nella nostra intervista.
In una precedente intervista ha detto che i tuoi film non sono fatti su temi, ma partono da dei personaggi che poi toccano anche temi. Come riesci a sviluppare, a partire da un personaggio, una storia?
Innanzitutto, i miei personaggi sono soprattutto persone che, camminando per le strade del mondo, sfiorano anche dei temi, anzi, ne sfiorano tanti, quindi è chiaro che i miei film non sono sviluppati su un unico argomento ma su diversi, perché io detesto i film a tema. Come regista, così come ai registi che piacciono a me, quello che interessa a me sono i personaggi, quindi, per me, se ho un personaggio ho un film, se non ho un personaggio non ho un film. Per me si finisce di scrivere temi quando si finisce il liceo.
E da dove nascono i tuoi personaggi?
Be’, per costruire i miei personaggi parto principalmente da me stesso, da caratteristiche mie personali. Con questo non voglio dire di aver mai subito un TSO o che io sia mai stato minacciato di vedermi portare via i miei figli, come accade ai personaggi del mio film. Semplicemente, quello che io faccio è portare delle caratteristiche mie all’estremo, giocando anche molto sulle mie paure personali. Per esempio, quando il vecchio dice che di quel tipo di musica non interessa niente a nessuno, questo rappresenta una paura mia personale legata al fatto che un giorno, forse, a nessuno potrebbe interessare più il cinema che piace a me. Spero ovviamente che non succeda!
Questo discorso vale specialmente per i personaggi maschili o anche per quelli femminili?
Naturalmente questo discorso vale sia per la costruzione del personaggio maschile che di quello femminile. Leggendo fatti di cronaca e articoli sulla tutela dei minori, mi sono reso conto che a volte può essere molto facile vedere la propria capacità genitoriale messa in dubbio, soprattutto se vivi una circostanza sfortunata. E questo aspetto lo approfondisco, per esempio, nella storia di Francesca. Sia lei che Alessandro sono delle proiezioni delle mie due paure principali, che sono legate alle due cose che amo di più al mondo, cioè i miei figli e il cinema. In un certo senso, uso il cinema come un mezzo per esorcizzare le mie paure di perdere queste cose, e anche come una sorta di gesto scaramantico, perché io poi sono molto superstizioso.
Una volta hai detto che “Ovunque proteggimi” realizza un tuo sogno, quello di fare un film sulla famiglia in famiglia, scritturando attori che sono anche persone molto vicine a te. Perché hai scelto proprio questa modalità di lavoro?
Mah, naturalmente ogni decisione ha dei lati positivi e dei lati negativi, però le mie scelte sono sempre prese per il bene del film. Se io avessi pensato che lavorare con la mia famiglia mi avrebbe fatto realizzare un film peggiore, non avrei preso questa decisione. Coinvolgere la mia compagna Francesca, mio figlio Alessandro e il mio carissimo amico Antonio nel film mi ha dato la possibilità di ottenere delle interpretazioni molto più vere, potenti, e per certi versi anche molto più intense.
Nell’adottare questa modalità di lavoro hai dei modelli di riferimento?
Come ho detto, fare un film con la mia famiglia è la realizzazione di un sogno perché mi avvicina alla modalità di lavoro che aveva uno dei miei registi preferiti, John Cassavetes, che lavorava con la moglie, con gli amici e i figli. In uno dei suoi film, “Una moglie”, che è anche tra i miei preferiti, recitano la moglie Gena Rowlands, i figli e Peter Falk, che era un suo grande amico, quasi un fratello. Penso che in un certo senso siano stati proprio i film di Cassavetes ad avermi spinto a fare cinema.
Parlando invece dei personaggi, Alessandro e Francesca intraprendono un viaggio attraverso una Sardegna in piena estate, molto lontana però dall’immagine stereotipata che si ha dell’isola durante questa stagione. Come mai questa scelta?
La Sardegna è il luogo dove ho vissuto per la maggior parte della mia vita, è il luogo che conosco meglio al mondo, quindi per me la Sardegna non è mai stata un luogo di vacanza, io non l’ho mai vista attraverso gli stereotipi di cui parli. Per me è un luogo come qualsiasi altro, in cui i personaggi si muovono e vivono i loro problemi.
E in che modo la scelta di questo tipo di ambientazione si sposa con i tuoi personaggi?
La condizione insulare della Sardegna determina anche quel senso di fuga che caratterizza i miei personaggi nel film. Il desiderio di fuga è molto più accentuato in un isolano perché l’isola è chiusa e, fino a poco tempo fa, si era davvero isolati. Se uno vuole fuggire da Reggio Calabria può tranquillamente prendere un treno, ma per andarsene dalla Sardegna è più difficile, bisogna almeno prendere la nave. Poi, ci sono caratteristiche che appartengono alla Sardegna che sono simili a quelle che si trovano un po’ dappertutto, in Italia e in Europa. Però, l’insularità è un aspetto suo caratteristico che, insieme al desiderio di fuga che ne consegue, sono rappresentati nel film e caratterizzano i miei personaggi.
Era la nostra ultima domanda. Grazie a Bonifacio Angius per essere stato con noi.
Grazie a te.