Intervista a Laura Bispuri, regista di “Figlia mia” e “Vergine giurata”

Il tema della maternità, il rapporto con Valeria Golino e Alba Rohrwacher, i festival e il pubblico

Su Londra splende un bel sole, anche se l’aria si è fatta di giorno in giorno più fredda. Il foyer del May Fair hotel è gremito di gente, protagonisti e non del London Film Festival. C’è una bella atmosfera, tra gente che parte e gente che arriva, film che debuttano e film che salutano.

Oggi, però, è una giornata speciale anche per un altro motivo: in una delle conference room dell’hotel mi attende l’incontro con Laura Bispuri, regista del film “Figlia mia”.

Con il suo lavoro d’esordio “Vergine giurata”, liberamente ispirato al romanzo omonimo di Elvira Dones, la regista aveva già attirato l’interesse del pubblico e della critica nel 2015, ottenendo, tra le altre cose, tre nomination per i Nastri d’argento, una per i David di Donatello e una per l’Orso d’oro a Berlino.

Una scena del film “Vergine giurata” (2015)

“Figlia mia”, uscito nelle sale italiane a inizio anno, promette di ripetere il successo della pellicola che l’ha preceduta. E intanto va in giro per i festival, insieme alla sua regista e alle attrici protagoniste.

Senza ulteriori indugi, diamo il benvenuto su Parole a Colori a Laura Bispuri!

 

“Figlia mia” è uscito a febbraio nelle sale italiane, è stato presentato al Festival di Berlino e adesso a quello di Londra. Come ci si sente a girare il mondo – o quanto meno l’Europa – con un film?

Sono contentissima. Sto seguendo il film da quando è uscito a febbraio e nonostante sia una cosa che mi è già capitata con “Vergine giurata”, è sempre un’esperienza incredibile. In entrambi i casi si è creato questo rapporto straordinario con il pubblico, un pubblico ampio, trasversale.

Cosa speri di lasciare al pubblico, con i tuoi lavori?

Innanzitutto io cerco sempre di fare dei film che mi piacerebbe vedere. A me piace uscire dalla sala con la sensazione di aver provato una grande emozione e sentirmi come se mi si fosse spostata la lancetta interiore, sperando che poi questo porti a una riflessione. Quindi spero che i miei film possano fare questo: emozionare quando vengono visti e far riflettere su delle tematiche in un secondo momento.

Una scena del film “Figlia mia” (2018)

Tornando a “Figlia mia”, hai parlato dello sviluppo del film come di un processo molto lungo e mi interessava capire come sei arrivata alla scelta di raccontare proprio la storia di Angelica, Tina e Vittoria.

Il nucleo originario della storia è nato prima ancora di “Vergine giurata” ed è un nucleo che ha a che fare relativamente poco con la storia finale di “Figlia mia”. Sono partita dal racconto di una ragazza di vent’anni che viveva in una famiglia normale ma che sentiva dentro di sé questo desiderio di essere adottata da un’altra madre. Da questo nucleo è nata una riflessione sulla maternità che poi, piano piano, insieme alla sceneggiatrice con cui lavoro da tanti anni, ho cercato di sviluppare. È nato così il triangolo tra i miei personaggi principali, ribaltando anche il nucleo iniziale, e son nate Angelica, Tina e Vittoria, tre donne che si è cercato di seguire, a livello della sceneggiatura, nel modo più sincero possibile.

Perché hai scelto di ambientare la storia in Sardegna?

La Sardegna l’ho scelta inizialmente a livello istintivo, perché c’ero stata da piccola e poi di nuovo con mia figlia, e poi perché cercavo una terra madre che rendesse questa storia quasi una tragedia greca. Poi piano piano ho scoperto tanti elementi della Sardegna che hanno fuso questa storia e questi personaggi con il luogo. Per esempio, una cosa che ho scoperto stando lì, è che la Sardegna ha un’identità molto forte, da una parte, ma dovendosi confrontare con quello che viene da fuori, in quanto isola, deve, dall’altra parte, sempre porsi una domanda sulla sua identità. A un certo punto, quindi, ho trovato uno specchio tra il luogo e i personaggi del film, che sono molto forti ma che, come madri, fanno un percorso identitario. La bambina, poi, fa completamente un percorso tutto suo.

Infatti, nel finale si vede proprio Vittoria davanti alle due madri che le incita ad andare avanti…

Si, è diventata in qualche modo lei la madre di loro due e quindi, mentre all’inizio sta in mezzo tra Tina e Angelica, alla fine si mette lei davanti a loro.

Soffermandoci sulle figure delle due madri, perché hai scelto Alba Rohrwacher e Valeria Golino per i ruoli?

Be’, con Alba avevo già fatto il mio primo film e si era creato un bel rapporto e un grande legame e quindi c’era molta voglia di lavorare ancora insieme. Poi, siccome il film è ricco di scene che sono un testa a testa fra le due madri, tanto che è stato anche definito un “western” femminile, volevo che fossero entrambe sullo stesso livello e ho pensato che affiancare ad Alba un’attrice di grande esperienza come Valeria avrebbe potuto creare questo senso di duello, anche a livello attoriale.

Ma perché questa scelta dell’immagine del duello nel rappresentare l’identità femminile attraverso la maternità?

Angelica e Tina rappresentano due forme di femminilità e maternità diverse, che si intrecciano e che, probabilmente alla fine, cercano di formare una creatura unica. Insieme sono un’ipotesi della madre che vorrei essere io, che è una mescolanza tra le due.

Rimanendo su questo tema, in “Vergine giurata” parli dell’identità femminile nello scambio di genere, in “Figlia mia” attraverso la maternità. Perché hai scelto proprio questi due approcci per indagare la femminilità?

In “Vergine giurata” mi sono interessata al tema dell’identità a trecentosessanta gradi. Quando ho letto il libro da cui è tratto il film ho avuto un innamoramento molto forte verso il personaggio di Marc, tanto che la sua storia è diventata la storia che volevo raccontare. Mi sembrava una riflessione sul contemporaneo necessaria. Vedo tanti film che trattano il tema della transessualità, ma nel mio l’ho fatto in modo particolare. La scelta di passare in “Figlia mia” a parlare di maternità ha a che fare con il mio percorso personale. Quando ho iniziato a lavorare al progetto attraversavo un momento di riflessione sul mio ruolo di madre e di figlia, e da qui è nata la voglia di sviluppare il film da tre punti di vista. Volevo costruire un grande viaggio per cercare di raccontare con sincerità la maternità, un tema che in Italia non si affronta molto, almeno in modo sincero. Comunque alla base di entrambi i film c’è sempre stato il desiderio di avere a che fare con personaggi complessi, che intraprendono grandi percorsi identitari per poi liberarsi.

La famiglia che rappresenti in “Figlia mia” sembra però un po’ sbilanciata verso la componente femminile, mentre la figura del padre sembra a tratti persino assente…

Certamente guardo molto alle due donne, però anche se il ruolo maschile è un po’ in secondo piano, il padre ha un ruolo bellissimo che io difendo molto. Il pubblico è rimasto spiazzato dal personaggio di Umberto, più di quello che avrei potuto immaginare, perché rappresenta un tipo di maschio poco raccontato al cinema: un uomo dolce che non è macho e che non ha bisogno di usare la forza per imporsi.

Grazie a Laura Bispuri per essere stata con noi.

Grazie a voi.