Duccio Chiarini è tornato a Londra, città che l’ha visto formarsi come regista, per presentare il suo ultimo lavoro, “L’ospite”, nel corso della rassegna cinematografica, Cinema made in Italy.
In un’epoca di grande mobilità, Chiarini sceglie di raccontare un viaggio quasi surreale, quello di un dottorando di mezza età tra i divani di parenti e amici, in angosciante attesa di sapere se la sua relazione amorosa continuerà oppure no. In questa tragicommedia dei giorni nostri, il regista fotografa una generazione circondata dal movimento ma immobile, paralizzata dalle proprie paure e dalle speranze disattese.
Ritornare a Londra, e proprio al Ciné Lumiere, è un momento speciale per Duccio Chiarini e durante la nostra intervista abbiamo l’opportunità di parlarne con lui, anche per conoscere meglio lo sguardo dietro l’incredibile personaggio di Guido.
Ciao Duccio. La tua formazione come regista avviene alla London Film School, dove oggi torni a presentare il tuo film. Come ti senti ad essere qui?
Per me Londra è un posto molto importante, perché rappresenta la prima volta che sono uscito da solo da casa, durante l’università, in cui sono partito per un Erasmus di legge, durante il quale ho poi fatto il corso di cinema. Londra è comunque un posto che ho continuato sempre a frequentare, uno dei miei più cari amici vive qui, ha anche prodotto il mio primo film. Quindi, Londra rappresenta un po’ l’avventura dei vent’anni e il mio sogno di diventare un giorno regista. Naturalmente a quel tempo avevo tante idee riguardo alla regia, molto diverse dalla realtà che poi mi aspettava, che era una realtà difficile come quando uno deve fare il primo film. Poi, come ho detto alla presentazione del film, la cosa particolare dell’essere qui, a presentare “L’ospite”, è che proprio al Ciné Lumiere ho fatto vedere il mio film di diploma, più di dieci anni fa. Quindi è un’emozione particolare, soprattutto far vedere questo film a tanti compagni della scuola di cinema, che sono in sala. È una bella sensazione, Londra è casa per me. Poi mi fa piacere essere qui, per sentire i commenti del pubblico, capire che emozioni hanno provato, se le hanno provate.
Durante la conferenza stampa a Locarno hai detto che la commedia e il dramma sono i punti di riferimento nella creazione delle tue storie. Ecco, mi chiedevo, che cosa ti attrae di questi due generi?
Le storie che sento il bisogno di raccontare sono storie che nascono da un’osservazione del reale, un’osservazione che per forza di cose è filtrata dal mio sguardo, che si è fermato negli anni un po’ sulle mie caratteristiche personali e sulle mie esperienze di vita, un po’ sul mio bagaglio culturale, che proviene dalla scuola e dalle letture che ho fatto, ma soprattutto è uno sguardo che nasce dal mio bagaglio di spettatore. Tendo a raccontare le storie forse con lo sguardo in cui le ho sentite la prima volta. Ho sempre guardato tanto cinema, ma i film che mi parlavano di più da ragazzo erano quelli verso cui sentivo una vicinanza emotiva, soprattutto verso quei film che raccontano della vita quotidiana, della famiglia, dei passaggi di tempo. È attraverso questo sguardo che ho creato e sto ancora creando la mia voce narrativa.
E quali sono i tuoi modelli di riferimento?
I modelli di riferimento che ho sono quelli della commedia amara, di cui ci sono tanti esempi in Italia anche se quelli che mi hanno più influenzato sono i film francesi degli anni settanta, penso a Claude Sautet, e quelli di Woody Allen dello stesso periodo.
Parliamo della scelta del personaggio principale del tuo film. In un’epoca di mobilità soprattutto giovanile e verso l’estero, tu scegli un ospite, in piena crisi di mezza età, che si muove tra i divani di amici e familiari e che rimane ancorato alle promesse del suo dottorato. Come mai hai scelto di raccontare proprio la storia di Guido?
La storia di questo film ha avuto uno sviluppo un po’ particolare. È un film che ho iniziato a scrivere, per la prima volta, dieci anni fa, usando una leggerezza e un tono di comicità diversa. Poi, come spesso accade nel mondo del cinema, mi sono dedicato a un altro film e, quando poi ho ripreso la sceneggiatura in mano, erano già passati alcuni anni. Mi sono accorto allora che quella leggerezza iniziale non c’era più, anzi, ne cominciavo a sentire anche il peso, una sorta di malinconia, come a dire che a ventotto anni passare da un divano all’altro è anche picaresco, dà un senso di avventura, ma che poi a trentasette anni comincia a diventare malinconico. Questo tipo di malinconia mi ha affascinato e l’ho subito sentita vicina.
Da cosa pensi derivi questa sorta di malinconia? È qualcosa di personale, un sentimento unico di Guido, oppure trovi che sia un riflesso dalla società in cui vive?
Una decina di anni fa abbiamo cominciato a sentire parlare di società liquida, dove l’amore è liquido e tutto è liquido, e ci siamo appropriati di questo termine senza però coglierne fino in fondo la drammaticità. Essendo fluido ci ha dato l’impressione di essere accogliente, quando dici liquido pensi all’acqua che è un elemento accogliente, ma invece questa liquidità si è rivelata essere una specie di deriva, in cui non si ha più nessun appiglio, nessuna certezza. Viviamo in un momento di perdita delle certezze, attanagliati da un bisogno di costruirne di nuove. L’idea del film era quindi quella di provare a fare una fotografia al tempo che sto vivendo attraverso uno specifico sguardo, che è quello sulle relazioni. Volevo provare a raccontare uno spaesamento, attraverso il punto di vista di una persona che si trova, suo malgrado, a dover cambiare idea sulle cose. Quindi, il personaggio di Guido è nato da questa idea di raccontare un’epoca, attraverso questa specie di romanzo di formazione fuori tempo massimo, che però penso rappresenti abbastanza bene la mia generazione.
Invece, cosa ti ha convinto a scegliere Daniele Parisi per interpretare un personaggio così particolare?
Per quanto riguarda Guido, l’attore a cui avevo pensato inizialmente era diverso da Daniele ma poi quando l’ho conosciuto, ho visto in lui delle cose diverse ma anche molto simili al personaggio, soprattutto nel trasmettere quel senso di smarrimento e di bisogno di conferme dagli altri, che mi hanno convinto a sceglierlo.
Un’ultima domanda prima di lasciarci. In un’intervista precedente hai detto che c’è bisogno di più immagini maschili come quella di Guido nel cinema di oggi. Ecco, secondo te, come regista, cosa potrebbe fare il cinema per uscire un po’ dagli stereotipi di mascolinità?
Cosa si dovrebbe fare non lo so, ma so che dalla mattina alla sera vedo tante persone che assomigliano più a Guido che a quelle rappresentate al cinema. Secondo me il cinema in certi aspetti ha perso il contatto con la realtà, cioè mi sembra che vada a pescare solo gli aspetti più drammatici, le emergenze sociali, raccontando meno la realtà antropologica della nostra società. Mancano un po’ sul grande schermo le emozioni più piccole e fragili della classe media, che poi sono quelle che interessano a me e sulle quali concentro i miei film.
Grazie mille per il tuo tempo.
Grazie a te!