Giovedì a Cannes è stato il giorno di Marco Bellocchio e del suo “Il traditore” (che arriva anche nei cinema italiani in questi giorni), con un bravissimo, credibile e camaleontico Pierfrancesco Favino nel ruolo di Tommaso Buscetta, primo pentito di Cosa Nostra.
Quindici minuti di applausi hanno seguito la proiezione ufficiale, al Théatre Grande Lumière. Un’accoglienza meritata quanto probabilmente inaspettata, che ha superato anche quella riservata a Tarantino.
Abbiamo avuto il piacere di partecipare alla conferenza stampa con Bellocchio e il cast di “Il traditore”. Queste le domande più interessanti fatte al regista, agli attori e agli sceneggiatori.
Buongiorno maestro Bellocchio. Iniziamo parlando del titolo del suo film. Perché, “Il traditore”?
Bellocchio: La figura del traditore nella storia dell’uomo e di conseguenza nel cinema ha sempre avuto un fascino e una forza narrativa indiscutibile. A partire da Giuda, il traditore biblico per antonomasia.
In questo caso Tommaso Buscetta che tipo di traditore è?
Bellocchio: Il protagonista è un traditore rispetto a Cosa Nostra, tradisce i principi e i “valori” su cui si è formato, tradisce la “famiglia mafiosa”. Ma Buscetta è un traditore conservatore, per questo per lui tradire è doppiamente doloroso. Lui è un mafioso appartenente a un’altra epoca, non si riconosce nel “nuovo corso” imposto dal sanguinario Toto Riina. Buscetta tradisce, ma è coraggioso nel farlo perché sa che la sua scelta avrà delle conseguenze. Ma lui vuole salvare la sua vita e soprattutto quella della propria famiglia. Dicevo prima che Buscetta è stato un “traditore conservatore”. Generalmente chi tradisce ha in mente di compiere atti rivoluzionari – penso a personaggi come Lenin o Che Guevara. Io stesso sono stato, in qualche modo, un traditore, perché sono cresciuto in una famiglia cattolica e ho poi aderito al movimento Maoista.
Perché ha voluto dare tanto risalto, visivamente parlando, al rientro di Buscetta in Italia?
Bellocchio: All’epoca si si sapeva poco di Buscetta, la sua figura era avvolta da un alone di mistero. La sua cattura in Brasile e poi l’estradizione furono notizie di prima pagina. Buscetta ha permesso al Pool antimafia di aprire un varco nell’omertà mafiosa e di scoprirne finalmente la struttura organizzativa. Le dichiarazioni di Buscetta rese a Giovanni Falcone furono un prezioso e decisivo contributo per sconfiggere una certa Mafia. Purtroppo il fenomeno mafioso esiste ancora. Ma il maxi processo di Palermo è stata una bella pagina del nostro Paese. Lo Stato non era inerme, anzi.
Una domanda agli sceneggiatori del film. Come vi siete approcciati alla scrittura di una storia reale, complessa e controversa?
Ludovica Rampoldi: Ci sono voluti due anni di lavoro e ben 11 bozze di sceneggiatura per arrivare al risultato finale. Sentivamo ovviamente una grande responsabilità nell’affrontare una pagina così importante della nostra storia. Abbiamo svolto molte ricerche, studiato gli atti dei processi, incontrato giudici e poliziotti. Abbiamo lavorato sollecitati dalle magnifiche ossessioni visive e creative di Marco. Le parole chiave che ci guidavano erano due: teatro e famiglia. Marco ci ha chiesto di scrivere i confronti tra i boss e le dinamiche processuali con un impianto e uno stile teatrale, così da evidenziare l’atmosfera tragicomica di quei momenti. Per ciò che riguarda la famiglia, se ne tratteggiano diverse tipologie: quella siciliana, quella portoghese, quella di Cosa Nostra.
Pierfrancesco Favino, come si è documentato su Tommaso Buscetta per poterlo interpretare al meglio?
Favino: Ho studiato, letto ciò che era disponibile. Ho fatto le mie ricerche, magari non sempre legali.
Quali aspetti del personaggio l’hanno colpita in modo particolare? Ci sono particolari che ha scoperto e che hanno cambiato l’opinione che in precedenza aveva su di lui?
Favino: Della figura di Buscetta mi ha quasi ossessionato un aspetto personale. Era figlio di un vetraio. Ha passato l’infanzia in mezzo agli specchi, vedendo quindi il proprio volto. Ma, paradossalmente, Buscetta per tutta la vita non ha fatto altro che sottoporsi a operazioni chirurgiche per modificare la propria faccia. Aveva paura d’invecchiare. Buscetta è sempre fuggito da se stesso, è stato un attore mancato nel suo apparire diverso a seconda di chi aveva di fronte.
Il riferimento all’attore mancato è interessante. Pensa che a questa costruzione del personaggio Buscetta abbia contribuito anche la lingua?
Favino: Buscetta ha raccontare di sé ciò che voleva. Si è costruito una sua drammaturgia. Così l’ho percepito leggendo i libri scritti da lui insieme con i giornalisti. E la lingua di Buscetta non è italiano, portoghese o siciliano, ma cambia a seconda dell’interlocutore di turno. Buscetta non nasce mafioso, decide di esserlo trasformando la propria vita in una tragedia.
Nel dialogo si inserisce Marco Bellocchio, spiegando il motivo che l’ha spinto a realizzare questo film.
Bellocchio: Ero sicuramente affascinato dal personaggio, dal suo essere conservatore e allo stesso tempo ribelle rispetto alle rigide regole imposte da Cosa Nostra. Chi l’ha conosciuto dice che era un uomo dalla grande personalità. Non aveva il complesso della sua ignoranza a differenza di altri mafiosi.
Riprende poi Favino.
Favino: Scherzando, in altre interviste, ho detto che prima di iniziare immaginavo Tommaso Buscetta come una via di mezzi tra Julio Iglesias e Maradona. Sempre elegante, con gli occhiali scuri, donnaiolo, romantico. La cosa che mi spaventava era interpretare un criminale con cui condivido alcuni valori. Personalmente lo condanno e non lo perdono per quanto ha fatto, eppure era un difensore della famiglia come lo sono io. Mi sono interrogato molto sul fatto se potesse esserci o meno in un me po’ di Buscetta, e in generale su quanto male risieda dentro ognuno di noi.
Maestro Bellocchio come ha deciso di affrontare le parti più crime e violente della storia e quelle d’azione ambientate in Brasile?
Bellocchio: Pensare di fare a tutti i costi qualcosa di diverso è un errore, nel cinema, così come lo è voler per forza stupire. Nel girare quelle scene abbiamo proceduto sereni, consapevoli che altri prima di noi lo avevano già fatto. Abbiamo seguito la “scia cinematografica”, insomma.
Luigi Lo Cascio ci può parlare del suo personaggio, Totuccio Contorno? Come si è avvicinato alla sua “lingua incomprensibile”?
Lo Cascio: Guardi, non ci capi nenti neanche io. [Ride insieme ai giornalisti] Sono ancora emozionato dalla bellezza del film. Come ho detto a Marco, “Il traditore” è una sorta di enciclopedia. Il mio personaggio è un soldato semplice, ma anche una spalla amicale per la solitudine del protagonista. Marco mi ha scelto per la notoria fisicità ed esperienza nell’interpretare film d’azione. [Altre risate in sala] Parlando della lingua, in Sicilia, i mafiosi soprattutto, usano questa lingua incomprensibile. Io ho frequentato il liceo in un quartiere di Palermo in cui si comunica così. Studiavamo due lingue straniere a scuola: l’inglese e poi l’Italiano.
Da palermitano, com’è stato tornare al tempo del maxi processo contro Cosa Nostra?
Lo Cascio: Mi ha emozionato “entrare” nel maxi processo. È stato un evento epocale. La fine è stata vissuta con gioia da Palermo. Per la prima volta i palermitani scesero in strada per ringraziare i giudici per quanto fatto.
Chiudiamo con una domanda a Marco Bellocchio. Nel finale si vede Buscetta commettere un brutale omicidio. Avete inserito questa scena per ricordare al pubblico che si trattava comunque di un criminale?
Sì. Sentivo di aver sviluppato troppa empatia con questo personaggio. Quella scena è servita per rimarcare un limite, un confine netto.