Dopo l’uscita, un anno fa, di “Più donne che uomini”, Fazi editore porta in libreria un altro romanzo di Ivy Compton Burnett (1884-1969), “Il capofamiglia“, nell’ambita della sua bella operazione di riscoperta di questa autrice britannica nel nostro Paese.
Il patriarcato trova la sua più fedele espressione nella figura di Duncan Edgeworth: padre tirannico, anaffettivo e lunatico, il capofamiglia per antonomasia. Attorno a lui si muovono i membri della sua famiglia: la moglie Ellen, dimessa e timorosa, le due figlie Nance e Sybil, egocentrica e sarcastica l’una, affettuosa e remissiva l’altra, e infine il nipote Grant, giovane donnaiolo di grande spirito, costantemente in competizione con lo zio.
Nella sala da pranzo degli Edgeworth va in scena quotidianamente una battaglia su più fronti: sotto il velo di una conversazione educata, si intuiscono tensioni sotterranee e si consumano battibecchi, giochi di potere, veri e propri duelli a suon di battute glaciali.
Fino a quando la famiglia non viene colpita da un lutto improvviso, che mescola le carte in tavola innescando una reazione a catena; strato dopo strato, ognuno dei personaggi svelerà la sua vera natura, in un crescendo di trasgressioni che comincia con l’adulterio e culmina con l’efferatezza.
Quello che colpisce de “Il capofamiglia”, uscito per la prima volta nel 1935 e considerato il preferito dall’autrice stessa, sono l’ironia e la sagacia con cui vengono descritti i drammi di questa famiglia apparentemente normale, radicata nella campagna inglese. Una famiglia solida, che però con il passare delle pagine perde via, via la sua aura, per rivelarsi in tutta la sua imperfezione.
Il tono del romanzo è incredibile, brillante, senza sbavature, così come lo sono lo stile e i dialoghi, al vetriolo, spassosi, impeccabili.
«Fra una settimana entreremo nel nuovo anno», disse Duncan rivolgendosi a tutti i presenti. «Avete formulato i vostri buoni propositi? Nance, vuoi dirmi uno dei tuoi?».
«A quanto pare, padre, oggi ti aspetti molto da me, in quanto primogenita. Il mio buon proposito è diventare più indipendente nei mesi a venire».
«Sibyl?», disse Duncan senza fare commenti.
«Io non ho propositi di questo tipo, padre. Credo anzi che rimarrò dipendente a vita».
«Rimarrete dipendenti entrambe, che lo vogliate o meno. O che lo voglia o meno io. Grant, tu cos’hai da dirci riguardo ai tuoi propositi?».
«Zia Ellen e io non ne abbiamo fatti, zio. Non siamo a tal punto schiavi delle convenzioni».
«E tu che ne sai dei buoni propositi di tua zia? Se lei può tranquillamente farne a meno, altrettanto non si può dire di te. Se ti chiedo di formulare un proposito per l’anno nuovo, tu lo fai, e lo condividi con noi».
«E i tuoi propositi quali sono, padre?», disse Nance.
«Ma bene, bene davvero. Chi credi di essere per domandarlo? E dato che vuoi essere indipendente, cosa te ne importa? Grant, pretendo che tu mi obbedisca».
Anche il ritmo della storia è perfetto: si inizia piano, quasi in sordina, per venire poi travolti da una serie di eventi e di scandali, almeno visti dalla prospettiva degli abitanti di questa piccola comunità, e approdare persino al crimine bello e buono. Il tutto senza mai perdere quella patina di nobiltà, e le buone maniere!
Sembra impossibile che personaggi così posati, così educati, possano partecipare a qualcosa di diverso rispetto a tè pomeridiani, raccolte di beneficenza e funzioni nella canonica del paese. E invece…
“Il capofamiglia” è una piccola chicca per originalità e realismo, che farà passare delle ore piacevoli ai lettori. E magari farà loro scoprire un’autrice come Ivy Compton-Burnett, poco conosciuta nel nostro Paese. Almeno fino a oggi.