“Grace Jones: Bloodlight and Bami”: un ritratto anticonvenzionale

10 anni di lavoro per la realizzazione di questo "pedinamento autorizzato" a opera di Sophie Fiennes

Un film di Sophie Fiennes. Con Grace Jones, Jean-Paul Goude, Sly & Robbie. Documentario, 116′. Gran Bretagna, Irlanda, 2017

Al cinema il 30 e 31 gennaio 2018

Né un biopic né un film concerto, nonostante ospiti una dozzina di hit interpretate da Grace Jones sui palchi di tutto il mondo, da “Slave to the Rhythm” a “Pull Up to the Bumper”, fino alle più recenti, personali “Hurricane” e “William’s Blood”. Piuttosto, un diario, un pedinamento autorizzato, la cui produzione ha abbracciato un arco temporale di circa dieci anni, riuscendo ad avere accesso agli aspetti più privati della storia familiare della performer.

 

Chi è Grace Jones? Perché mai dovrei andare al cinema a vedere un film su questa donna? Sono alcune delle domande che, da ignorante completo in campo musicale, mi sono fatto quando ho ricevuto l’invito per assistere all’anteprima stampa di “Grace Jones: Bloodlight and Bami” di Sophie Fiennes.

Come qualsiasi capra su questa Terra, ho chiesto aiuto all’amico Google per colmare i vuoti. Appurato che Grace Jones è stata prima una top-model, poi una icona del pop e infine anche un’attrice, che ha segnato in modo profondo gli ultimi trent’anni, ho sperato che il film della Fiennes potesse aiutarmi a rendere meno imbarazzante il mio status di nerd senza speranza.

Purtroppo – per me e per la comunità nerd – “Grace Jones: Bloodlight and Bami” fallisce in questa missione pedagogica e culturale, con il suo non essere né un documentario classico né un omaggio all’artista. La regista compie l’errore di pensare che nessuno, oggi, possa ignorare chi sia Grace Jones, dando molto per scontato.

La pellicola risulta respingente e a tratti persino noiosa. La personalità, il talento, il carattere e la determinazione della donna Grace Jones prima ancora che dell’artista si intuiscono, nel corso delle quasi due ore di visione, ma lo spettatore neofita si perde, si confonde, arranca in un impianto narrativo pasticciato e altalenante per ritmo e pathos.

Facciamo luce su qualche punto, a cominciare dal titolo. Il termine “bloodlight” si riferisce alla luce rossa che viene accesa quando un artista è impegnato in una registrazione in sala d’incisione; “Bami”, invece, alla focaccia giamaicana fatta con farina e tapioca, un alimento simile al pane che simboleggia la sostanza della vita.

Alla sua terra di origine, la Giamaica, e alla sua famiglia è molto legata Grace Jones, e questo, quanto meno, emerge dal girato. Così come il bisogno di compiere un “ritorno a casa”, insieme al figlio e al nipote.

Ma la Jones raccontata da Sophie Fiennes è soprattutto una cittadina del mondo, che corre da Tokyo a Parigi passando per Londra e New York, senza però mai perdere la propria identità. Una professionista determinata ed esigente, seria e professionale. Un animale da palcoscenico. Un’icona.

Nel documentario – che ha richiesto circa 10 anni di lavoro – vengono mostrati momenti privati e intimi insieme a spezzoni inediti di concerti, che trasmettono emozioni, ritmo e voglia di ballare e cantare.

Per i fan di Grace Jones, “Bloodlight and Bani” è un’occasione da non perdere per conoscere meglio il proprio idolo. Per chi invece si avvicinasse per la prima volta al mondo della performer, consigliamo uno studio preparatorio prima della visione.

 

Il biglietto da acquistare per “Grace Jones: Bloodlight and Bami” è:
Nemmeno regalato. Omaggio. Di pomeriggi. Ridotto. Sempre.

 

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Vittorio De Agrò
È nato in Sicilia, ma vive a Roma dal 1989. È un proprietario terriero e d’immobili. Dopo aver ottenuto la maturità classica nel 1995, ha gestito i beni e l’azienda agrumicola di famiglia fino al dicembre 2012. Nel Gennaio 2013 ha aperto il suo blog, che è stato letto da 15.000 persone e visitato da 92 paesi nei 5 continenti. “Essere Melvin” è il suo primo romanzo.

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