Ho da poco infilato il mio prezioso badge giallo in valigia, insieme a tanti ricordi ed emozioni di questa mia prima esperienza in terra francese che mi porterò dietro a lungo.
Lasciando al caporedattore a Milano il compito di scrivere il pezzo conclusivo sui vincitori della 69° edizione del Festival di Cannes, conclusosi ieri, io posso tediarvi felicemente, raccontandovi qualche istantanea della mia esperienza da inviato.
È stata un’avventura bella, faticosa, entusiasmante, la mia, un’avventura che un vero appassionato di cinema dovrebbe provare almeno una volta nella vita. Essere sulla Croisette nei giorni del Festival è un po’ come trovarsi per dodici giorni nel Paese dei balocchi, con la possibilità di vedere dal vivo personalità e artisti che fino al giorno prima era abituato a trovare solo in tv o al cinema.
Per due settimane scarse Cannes diventa l’ombelico del mondo, almeno di quello cinematografico e modaiolo, e qui tutto è possibile. Pellicole a parte, è anche una buona occasione per osservare, scarsamente considerati, le cinquanta e oltre sfumature dell’essere umano.
Tutti sognano di avere i loro cinque minuti di celebrità, e Cannes ti permette di realizzare questo sogno. Fin dalle prime ore del giorno vedi uomini e donne vestiti elegantemente circondare il Palazzo del cinema, con in mano le loro belle richieste di “invitation” per le première serali.
Il festival è una gioiosa, ricca e complessa macchina da guerra in cui chi si ferma è perduto. Devi correre letteralmente da una sala all’altra e soprattutto devi armati di molta pazienza, accettare l’idea che per vedere un film – a meno che tu non sia la firma di punta di qualche quotidiano patinatissimo – puoi dover aspettare anche cinque ore.
Al Festival neppure i giornalisti sono tutti uguali – con buona pace del “Liberté, Égalité, Fraternité” di rivoluzionaria memoria. Se hai al collo il badge di colore bianco puoi sfilare con le star, se invece, come il sottoscritto, il tuo lasciapassare è giallo pazienza e calma ti serviranno.
In qualunque fascia veniate inseriti, conoscere colleghi provenienti da tutto il mondo, poter condividere idee e parlare della comune passione cinematografica è estremamente stimolante. La sala stampa è un gigantesco porto di mare multietnico, dove si respira a pieni polmoni l’amore per la settima arte e la passione per la professione giornalistica.
La serata conclusiva porta con sé, come in ogni altra occasione analoga, malinconia, delusioni assortite, polemiche. Personalmente ho condiviso solo in parte le scelte della giuria guidata dal regista George Miller.
Non avendo, ancora, il dono dell’ubiquità non sono riuscito a vedere tutti i 20 film in concorso. Mi è mancato, ad esempio, “Il cliente” dell’iraniano Asghar Farhadi che però, a detta dei colleghi, merita i due riconoscimenti ricevuti – miglior sceneggiatura, miglior attore.
Sono felice, e non mi vergogno ad ammetterlo, per la Palma d’oro a Ken Loach con “I, Daniale Blake”, dove è stato posto l‘accento – con spirito critico ma anche sensibilità – sull’esigenza che la dignità dell’uomo venga sempre e comunque salvaguardata.
Sebbene i colleghi in sala stampa abbiano storto il naso e preso di mira l’emotività di Xavier Dolan durante il discorso di ringraziamento per il Grand Prix della Giuria per “Juste la fin du monde”, non si possono non sottolineare il talento e la creatività del regista canadese.
Il vostro cronista deve ancora chiudere la valigia, per cui vi lascio con le parole suggestive di Loach: “Ha vinto una piccola grande storia, comune, purtroppo, a tante persone. Spero che grazie al mio film, nel mondo, possano esserci sempre meno casi alla Daniel Blake”.
Arrivederci, Cannes.