Una serie in 10 episodi ideata da Noah Hawley e prodotta da Adam Bernstein, Joel ed Ethan Coen, Noah Hawley, Warren Littlefield, Geyer Kosinski. Con Patrick Wilson, Ted Danson, Jean Smart, Kirsten Dunst, Jesse Plemons. 2015
La vita del tele-dipendente italiano è tutt’altro che semplice. L’amore per il piccolo schermo si scontra molto spesso con la qualità dei prodotti (sceneggiati, fiction, serie) che vengono proposti dai palinsesti.
Per fortuna a salvare il pubblico arrivano dagli Stati Uniti film per la televisione e miniserie, nell’ultimo periodo di gran moda e garanzia di qualità.
Alla Festa del Cinema di Roma è stato presentato in anteprima, con due episodi, uno di questi prodotti di sicuro successo: la seconda, attesa stagione di “Fargo”. Ispirata a un film cult, diretta da registi di spessore come i fratelli Coen, con un cast di stelle l’entusiasmo del pubblico è presto spiegato.
Personalmente ho faticato a entusiasmarsi per la pellicola e della serie, la scorsa primavera, non ha visto neanche un minuto. Vi chiederete perché allora mi sia lanciato in questa recensione. È il duro lavoro dell’inviato, chiamato talvolta a fare i conti – per volere di caporedattore – anche con pezzi e argomenti spinosi.
Tant’è, eccomi qui. Le serie televisive sono, tra i campi spinosi, uno dei più infidi nel quale muoversi. Offendere la sensibilità degli appassionati e mancare di cogliere sfumature, per altri chiarissime, è cosa di un attimo. Nonostante tutta la buona volontà, durante la proiezione di questi due episodi ho faticato non poco per mantenere desta l’attenzione – e aperti gli occhi.
Non avrò la pazienza e le motivazioni del vero fan – quindi prendete le mie parole per quelle che sono, l’opinione di un profano – ma se un show non riesce a conquistarmi già dall’incipit la mia mente prende il volo per altri lidi e la mia concentrazione vacilla.
E l’incipit di Fargo (mini-serie in 10 episodi), secondo me, è debole. È debole quando per far capire allo spettatore che ci troviamo nel 1979 proietta una finta clip di un film in cui recita un giovane attore di nome Ronald Reagan. È debole quando sceglie di introdurre i diversi personaggi attraverso sotto-storie apparentante lontane ma che poi si scoprono essere in realtà legate a doppio filo.
Il terzogenito di una nota famiglia criminale di origine tedesca, i Gerhardt, pur di assicurasi un vantaggioso appalto commerciale minaccia e poi uccide un giudice e tre avventori in un bar.
Il giovane viene poi travolto e ferito mortalmente da un’auto pirata. Alla guida del mezzo la parrucchiera Peggy Blomquist (Kirtsten Dunst), che confessa l’accaduto al marito macellaio Ed (Jesse Plemmons).
Gli efferati omicidi nel bar fanno partire le indagini, guidate dallo sceriffo Hank Larsson (Ted Danson), in collaborazione con l’agente federale nonché genero Lou Solverson (Patrick Wilson).
A chiudere il cerchio, il patriarca dei Gerhardt viene colpito da ictus e per questo non può continuare a guidare il clan. Altri gruppi criminali alzano la testa per soppiantarlo e al contempo si apre una faida familiare per la successione, tra il figlio più grande (Jeffrey Donovan) e la madre (Jean Smart).
Ancora una volta un’anonima cittadina – questa volta si tratta di Luverne, in Minnesota – diventa il centro del mondo, tra crimini e interessi della criminalità organizzata.
Nonostante la presenza di un cast di assoluto prestigio, i personaggi nei primi due episodi non bucano lo schermo, rimanendo confinati in qualcosa di già visto e sentito. La sceneggiatura, anche se ben scritta, scorre lenta e il ritmo è davvero troppo compassato. La regia è di buon livello, creativa e calibrata, ma manca comunque il colpo d’ala.
La seconda stagione di Fargo, per come l’ho vista io, è come una Ferrari: ha dalla sua grandi potenzialità, ma alla fine delle prove libere, invece di ottenere la pole position, scivola a sorpresa in terza fila.
Al tempo, e soprattutto ai fan, spetta l’ultima parola. Vedremo se la macchina messa a punto dai fratelli Coen sarà capace di recuperare terreno, rombando sul circuito dell’Auditel come tutti si aspettano, svegliando dal torpore anche gli attempati teledipendenti italiani oppure no.