Sta per uscire nelle sale “La ragazza nella nebbia”, diretto da Donato Carrisi, tratto dall’omonimo best-seller edito da Longanesi.
Il film ripropone la storia di Anna Lou, del mostro che l’ha presa e di quelli che la cercano, personaggi noti ai lettori come l’agente Vogel, che ha il volto di Toni Servillo, il professor Martini (Alessio Boni), l’insegnante di letteratura che Vogel e i media indicano come il principale sospetto, lo psichiatra Flores, interpretato da un grande Jean Reno, che recita in italiano.
Non aspettatevi però di vedere sul grande schermo una trasposizione troppo fedele del libro perché Donato Carrisi, qui in veste di regista e sceneggiatore, ha le idee chiare: film e libro sono due cose diverse.
Si è divertito, Donato Carrisi, a fare il regista?
Tantissimo. Mi sono divertito a vestire ancora una volta i panni del mostro che è forse la cosa che più mi entusiasma quando affronto una nuova storia.
E la sfida più difficile, da regista?
La stessa cosa: vestire i panni del mostro, perché quando lo si fa bisogna poi fare i conti anche con il mostro che è dentro di noi.
Ha paura del giudizio dei suoi lettori? Che le possano dire: “Donato, ci hai deluso”?
Nella vita in generale ho paura, sono un fifone. Ma penso che questo sia anche funzionale a ciò che scrivo, perché come dico spesso, non comprereste mai una bistecca da un macellaio vegetariano, e se io non avessi paura delle cose che mi circondano forse non riuscirei a scriverne e trasmettere qualcosa. Detto questo, no, non ho paura di deludere i lettori, perché libro e film sono due cose completamente diverse, due creature diverse. Ma era una sfida che dovevo accettare.
Com’è stato lavorare con il cast e la crew?
Io non penso alla professione di scrittore come professione individuale ma collettiva. “La ragazza nella nebbia” non è un film di un autore, ma un film di autori dove ognuno ha avuto modo di portare il proprio contributo. E intendo tutti, non solo gli attori, ma anche scenografi, costumisti, tecnici: ognuno ci ha messo qualcosa di suoi. Io ho dovuto solo ispirarli. Quindi c’è stato davvero un rapporto di grande fiducia. Il risultato è un grande gioco di squadra.
Parliamo per un attimo dell’ambientazione, il paesino montano di Avechot, che ha un che di fiabesco e di horror al contempo.
Si tratta di una località immaginaria, che rimanda a una dimensione fiabesca, ma da fiaba cattiva, che volevo fosse percepibile. Anche la scelta del plastico per rappresentare il paese è fondamentale. L’alternativa era scegliere una valle, riprenderla con la macchina da presa e poi aggiungere un paese con un effetto speciale digitale. Ecco io non ho voluto fare questo. Ho immaginato che questa fosse una località turistica abbandonata, che ci fosse un museo pieno soltanto di polvere. Io volevo un microcosmo, un posto da dove non si può fuggire, dove riecheggia la risata dei bambini dai capelli rossi.
È più facile arrivare nel cuore dei lettori oppure a quello degli spettatori?
Non lo so, credo che l’importante sia arrivare in qualche modo. Bisogna scegliere la strada giusta per farlo. A volte c’è, a volte c’è solo un vicolo cieco ed è una cosa con cui un narratore deve fare i conti.
Lei, scrittore, ha deciso di essere il regista dell’adattamento del suo libro. Pensa si tratti di un precedente per la categoria? Da oggi in avanti gli scrittori inizieranno sempre più spesso a far da sé al cinema, così da evitare, magari, che delle loro opere venga fatto scempio?
Io ho un amico che si chiama Jeffery Deaver che ha creato un personaggio iconico, Lincoln Rhyme, che è stato tra l’altro protagonista di un film di grande successo (“Il collezionista di ossa”, ndr). Ma perché, nonostante il potenziale del personaggio e il successo del primo film, non ne sono stati fatti altri? Ce lo siamo domandati spesso a cena, Jeffery e io. E la risposta che ci siamo dati è che quel film ha esaurito il potenziale immaginifico dei lettori di quel personaggio. Quindi, in qualche modo, non è stato curato adeguatamente.
Quindi secondo lei l’adattamento di un libro deve essere un prodotto a sé?
Tra il mio libro e il film ci sono differenze notevoli, uno segue un percorso, uno un altro. Nel film per esempio è più evidente quest’aura vintage che nel libro non è percepita perché il film deve inserirsi in una tradizione di thriller, è inutile, non si inventa niente. Se la prima regola per un grande romanziere è copiare vale lo stesso per un grande regista.
A cosa si è rifatto per il suo film?
Cosa sono andato a pescare? I noir degli anni ‘60 e ‘70, quelli con protagonista Gian Maria Volonté, e poi la grande stagione dei thriller degli anni ‘90 – “Il silenzio degli innocenti” che mi ha segnato profondamente, “Seven”, i film di Luc Besson. Tutto riecheggia quel mondo che nel libro non c’è. I televisori con il segnale disturbato, la grana antica e vissuta nella scenografia.
Com’è stato sceneggiare il suo stesso romanzo? Non ha avuto timore di intervenire su quella che è a tutti gli effetti una sua creatura?
Quando facevo lo sceneggiatore evitavo di sceneggiare i libri perché c’era sempre il fiato sul collo dell’autore. In questo caso ho risolto ammazzando l’autore del romanzo. Gli ho sparato il primo giorno di riprese, e quindi sono diventato un’altra persona. Non posso dire di essere stato Dottor Jekil e Mister Hide, piuttosto Mister Hide e Mister Hide.
Il film parla anche di un caso di cronaca che diventa un circo mediatico. Perché ha scelto di sviluppare questo tema con tanta forza e in maniera così esplicita?
C’è una cosa che nessuno dice mai: il crimine è un business. Io mi sono ritrovato a commentare un fatto di cronaca molto noto per Il Corriere della Sera, per il quale sono andato in uno sperduto paesino di provincia dove era scomparsa una ragazzina (il caso di Yara Gambirasio, ndr). In questo paesino c’era una pizzeria che stava fallendo. Poi le luci dei riflettori si sono accese e sono arrivati i giornalisti, che dovevano mangiare e pernottare. E dopo sono arrivati i turisti dell’orrore richiamati dall’eco televisiva del fatto. La pizzerie non ha più chiuso. Mi sono chiesto spesso se c’è una ricaduta economica dei fatti di sangue, anche per i media. E la risposta è sì. A fronte di una spesa ridicola – un inviato, un cameraman – si ottengono grandi profitti. C’è un circo mediatico e un circolo vizioso che riguarda i media, gli investigatori e il pubblico. Nessuno si può assolvere, tanto meno io che faccio parte di questo modo di esplorare la realtà. Forse è un effetto della nostra epoca, da analizzare e non da condannare. Quello che voglio sottolineare è che nel film non ci sono innocenti. Rompiamo uno specchio all’inizio e ne consegniamo i pezzi allo spettatore, perché lo ricostruisca. L’immagine che appare alla fine non è solo quella del mostro ma anche quella del proprio riflesso.
Cosa si sente di dire a chi andrà a vedere il suo film? Cosa lo rende speciale?
L’unica cosa da dire di questo film è che c’è un finale. I film che ci piacciono di più, i romanzi che ci ricordiamo meglio sono quelli che ci lasciano un finale. Gli altri ce li scordiamo subito. Quindi io volevo un film con un finale che il pubblico potesse portarsi a casa. Il rischio, però, è che il pubblico si porti a casa anche il mostro.