Un film da tenere d’occhio, quando arriverà nelle sale italiane, “The personal life of David Copperfield” di Armando Iannucci, coraggioso e personale, combina il meglio del cinema del regista con quel calore che solo le storie di Dickens sanno trasmettere.
Un cambio di toni e di rotta, per lo scozzese 55enne, che non è sfuggito ai critici e ai giornalisti presenti alla vivace conferenza stampa che ha visto protagonisti Iannucci e il produttore del film, Kevin Loader.
Ad aprire l’incontro sono state le vivacissime domande di Tricia Tuttle, direttrice del BFI e del London Film Festival.
Tricia Tuttle: Per molti versi questo film sembra per te un allontanamento dalla satira politica. Che cosa hai trovato in Dickens che ti ha convinto a credere nel progetto?
Armando Iannucci: Sono sempre stato un grande fan di Dickens, i suoi racconti sono sempre stati fonte di ispirazione per me. Dickens vuole intrattenere il lettore ma vuole anche affrontare grandi temi sociali, come la povertà e il governo, con uno sguardo sempre puntato sugli aspetti più umani e sull’individuo. Questo senz’altro mi ha colpito.
Nel caso di “David Copperfield”, quando l’ho letto mi è sembrato sin da subito cinematografico e sperimentale. Pensiamo per esempio al primo capitolo, tutto incentrato su David appena nato, che prova a capire le forme della realtà e lo fa con parole molto brevi e semplici; al linguaggio che, crescendo, si complica con l’aumentare della sua ansia di vivere. O ancora al modo in cui il protagonista descrive Londra quando è ubriaco: mi è sembrato di star guardando “The Wolf of Wall Street”, tutto molto cinematico, moderno e divertente. Eppure questi aspetti non li ho trovati in altri adattamenti del libro e per questo ho sentito il bisogno di fare questo film, per esprimere l’umorismo, la vita e la contemporaneità dei temi affrontati in “David Copperfield”.
TT: Quanto hanno pesato le scelte di casting, nella volontà di dare un senso di modernità a David Copperfield?
Kevin Loader: Per quanto riguarda il personaggio di David, abbiamo avuto sempre in mente un solo candidato, Dev Patel.
AI: Dev è stato istintivamente la persona a cui ho pensato quando cercavo il mio protagonista, e sono stato contentissimo quando ha accettato. Anche per il personaggio del Signor Micawber ho subito pensato a Peter Capaldi. Già anni fa, alla fine di uno dei nostri lavori insieme, gli avevo accennato il desiderio di fare un film su David Copperfield e di averlo con me in questo ruolo.
KL: Per quanto riguarda gli altri attori, li abbiamo scelti pensando al fatto che all’epoca Londra era il centro del mondo.
AI: Era la Manhattan dell’epoca vittoriana!
KL: La Londra di allora era tanto multietnica quanto la Londra di oggi, per cui abbiamo scelto attori che aiutassero lo spettatore a riconoscersi sia nei luoghi sia nei personaggi.
TT: Parlando di Dev Patel, è un attore conosciuto soprattutto per i suoi ruoli drammatici. Come avete capito che sarebbe riuscito bene a rendere la comicità di “David Copperfield”?
AI: Già in “Skins” e in “Lion” avevo notato le potenzialità comiche di Dev; l’ho visto fare commedia per cui sapevo che poteva rendere bene quell’aspetto. È stato proprio quando l’ho visto in “Lion” che mi sono detto: quello è David Copperfield! Il suo personaggio avrebbe dovuto letteralmente apparire in ogni scena e affrontare ogni sorta di situazione emotiva, fisica, visiva. Serviva la forza, il carisma e la concentrazione di Dev Patel per rendere tutto in modo convincente.
Finite le domande della Tuttle, il parterre di giornalisti si è trasformato in un mare di mani alzate. In tanti avevano curiosità da soddisfare, ma si è cominciato con domande generali e, forse, di rito.
Sei passato da girare film cinici e satirici a uno così piacevole. Come mai questo cambio di registro?
AI: Non è stata una scelta consapevole. Se mi metto nei panni di chi mi guarda, posso capire che il passaggio da “Morto Stalin, se ne fa un altro” a “David Copperfield” possa confondere, ma io in parte sono un ottimista e volevo quindi fare qualcosa di positivo. Quello che mi piace di questa storia è che, prima di tutto, mi ha dato l’opportunità di fare un film che potesse rivolgersi a un pubblico di tutte le età, a tutte le generazioni, perché è fondamentalmente un film sulla vita. Poi, siccome oggi si parla tanto di quello che la Gran Bretagna è e di quello che non è, volevo celebrare quello che io sento essere la Gran Bretagna, qualcosa di molto più luminoso, animato e allegro di come viene spesso dipinta. La Gran Bretagna è un paese con una lunga e ricca tradizione comica. Inoltre, volevo anche fare un film che celebrasse l’amicizia e il senso di comunità senza perdere di vista gli aspetti più oscuri e crudi della società di cui Dickens spesso parla.
Come hai approcciato l’adattamento di “David Copperfield”?
AI: Innanzitutto, volevo fare un film per cui non fosse necessario avere nessuna nozione pregressa né sul romanzo né sul personaggio. Poi volevo catturare l’essenza del libro che più mi ha emozionato, che non è il percorso emotivo ma l’uso della lingua, l’umorismo, la giocosità e la ricchezza di immagini. La prima bozza era fatta solo dei dialoghi di Dickens, una bozza piuttosto breve ma che ci ha aiutato a capire quali elementi della storia poter usare nel film e quale, eventualmente, escludere. Il punto per noi non era tanto quello di rispettare il testo in maniera reverenziale ma di catturarne l’essenza.
Cosa pensi che renda le storie di Dickens così facili da adattare per il cinema?
AI: Non so cosa ci sia di preciso nello stile di Dickens che rende le sue storie così adatte a diventare film, forse il fatto che scrivesse storie ogni mese e che dovesse mantenere vivace la trama. Però c’è anche da dire che Dickens voleva intrattenere il suo lettore e, per farlo, usasse molto i toni della commedia, verbali ma anche visivi. Per esempio, quando gli autori di commedie sono sul set sanno esattamente da che angolo la telecamera dovrebbe riprendere la scena per renderla divertente. Penso che il momento in cui ho capito che volevo fare un film su David Copperfield è stato mentre leggevo il passaggio in cui David descrive la zia Betsy scacciare gli asini dal giardino, osservando l’intera scena da dentro casa, attraverso la porta finestra, come se stesse guardando un film muto. È questo il punto in cui ho detto: “Posso vedere questa scena”.
KL: Per esempio, anche il modo in cui viene descritta la casa nella barca è molto cinematografico. Nei ricordi di David da bambino la casa è molto colorata e vivace, ma quando ci ritorna da grande i colori sono spenti. Un modo molto cinematografico di spiegare come funziona la memoria.
Come siete riusciti a bilanciare gli aspetti caricaturali e quelli tragici della storia?
AI: Già in “Morto Stalin, se ne fa un altro” ho imparato a gestire questi due aspetti. Dickens stesso usa nel romanzo le scene comiche per portare il lettore verso scene più drammatiche, così che gli aspetti comici non minaccino quelli più tragici. Ho lavorato molto con gli autori e gli attori anche prima di cominciare a girare, sui personaggi e le interazioni fra di loro. Così facendo, il primo giorno di riprese, tutti erano già padroni del background dei loro personaggi e dei loro pensieri circa gli altri personaggi. In questo modo, credo che gli attori siano riusciti a creare dei caratteri a tutto tondo, tragici e comici, piuttosto che risultare delle macchiette o delle caricature.
È stato poi il momento delle domande più specifiche e tecniche, che hanno regalato alcune chicche utili per capire meglio il dietro le quinte del film.
Da un punto di vista registico, è stata una scelta consapevole quella di ricreare un’ambientazione vittoriana piuttosto che usare la CGI, e di mettere David fisicamente su un palcoscenico a raccontare la sua storia?
AI: Ero molto consapevole del fatto che nel romanzo di Dickens è David che racconta la sua storia e che sta cercando di trovare se stesso attraverso questo racconto. Era importante quindi per me rendere questo aspetto il più reale possibile, ricordando a chi guarda che questa storia è incentrata sul racconto di una storia. Non volevo che lo spettatore si sentisse lontano o distaccato dai personaggi, e volevo evitare l’uso della CGI.
KL: Abbiamo parlato tanto del fatto di usare “vecchi” metodi cinematografici piuttosto che la CGI. Volevamo che emergesse l’aspetto del racconto di una storia, anche dal punto di vista cinematografico.
AI: Per esempio, quando David guarda nello specchio e scrive, abbiamo usato il trucco del fantasma di Pepper: le persone nello specchio sono gli attori reali.
L’incontro si è chiuso con un’ultima domanda, che ha riportato il film al presente, dimostrando come Iannucci sia riuscito nell’intento di divertire senza però adombrare le forti tematiche sociali presenti nella storia originale.
Nei titoli di coda ringraziate Shelter. Mi chiedevo che ruolo avesse giocato questa associazione [che si occupa dei senzatetto e di cattive abitazioni in Inghilterra e Scozia, ndr] nella realizzazione del film…
AI: Ho parlato con loro per capire le condizioni abitative delle persone nel 1840, che sono descritte anche da Dickens nel suo romanzo, e come queste si collegassero ai problemi del presente. Le leggi che regolano gli affitti nel Regno Unito non sono cambiate molto rispetto al passato, i proprietari hanno molti più diritti degli affittuari. Nonostante il film sia ambientato nel 1840, volevo trasmettere l’idra che quello che accadeva all’epoca accade ancora. Come dicevo prima, volevo che il film fosse in un qualche modo attuale e loro mi hanno aiutato in questo.
La conferenza stampa si è chiusa su questa nota attuale. Non ci resta che augurare a tutti buona visione!