New York. Otto del mattino. Alice, una poliziotta di Parigi, e Gabriel, pianista jazz americano, si svegliano ammanettati tra loro su una panchina di Central Park. Non si conoscono e non ricordano nulla del loro incontro. La sera prima, Alice era a una festa sugli Champs-Elysées con i suoi amici, mentre Gabriel era in un pub di Dublino a suonare. Impossibile? Eppure… Dopo lo stupore iniziale le domande sono inevitabili: come sono finiti in una situazione simile? Da dove arriva il sangue di cui è macchiata la camicetta di Alice? Perché dalla sua pistola manca un proiettile? Per capire cosa sta succedendo e riannodare i fili delle loro vite, Alice e Gabriel non possono fare altro che agire in coppia. La verità che scopriranno finirà per sconvolgere le loro vite.
Sarò impopolare, potrete accusarmi di essere senza cuore, dopo che avrò finito, ma posso dire in tutta franchezza che a me questo libro non è piaciuto per niente?
Di Guillaume Musso, fino ad oggi, mi ero rifiutata di prendere in mano un secondo romanzo. Perché il primo, e unico, che ho letto, “La ragazza di carta”, mi è piaciuto così tanto da non sentirmela di rischiare. Mi spiego. Dalle trame dei suoi romanzi ho sempre avuto l’impressione che lo scrittore francese non fosse in sintonia con i miei gusti di lettrice, che fosse troppo melenso o troppo scontato, comunque inadatto a piacermi. Per questo, dopo che un suo libro mi ha entusiasmata, ho preferito troncare la frequentazione. Perché le variabili impazzite si incontrano una volta… due sarebbe già troppo.
Ho letto “Central Park” facendo troppo affidamento sul titolo, lo ammetto, e analizzando troppo poco i rischi che una storia di questo genere portava con sé. Mi trovo negli Stati Uniti da qualche settimana, ma confesso che tutto quello che fa riferimento a questo paese, in questo momento della mia vita, gioca su di me un fascino strano, irrefrenabile. È un po’ come trovare accenni a libri e librerie nel titolo/sulla copertina/nella sinossi di un romanzo: se vedo parlare di America sono già conquistata (e a ben vedere temo di non essere l’unica, perché se il mondo dei libri è uno di quelli su cui puntare per avere successo, subito dopo, o insieme, vengono New York e gli States).
Insomma, sia come sia, ho mollato gli indugi, e ho deciso di correre il rischio di un Musso-bis. Sinceramente sarebbe stato meglio non lo avessi fatto.
Il libro non è brutto in quanto tale – almeno è diverso dalle storie d’amore banali, trite e ritrite, che troppo spesso troviamo oggi in libreria. È inaspettato, senza dubbio. Dalla copertina (a mio avviso inadatta per questa storia) nessuno potrebbe immaginare di stare per leggere un thriller quasi psicologico, un thriller forte e crudo; una storia che cambia pelle molte volte e che difficilmente riuscirete a decifrare dopo 50 pagine – ma anche dopo 100 vi sfido a indovinare come andrà a finire.
Il problema, secondo me, è che questo libro è troppo. Io capisco che per funzionare un personaggio debba avere qualcosa di particolare e speciale, che debba distinguersi. Però con Alice penso che Musso abbia esagerato. Quanto può accanirsi, il destino, contro una sola persona? Ma soprattutto, quanto può tirare la corda uno scrittore, prima che il plot di un libro diventi, semplicemente, troppo per essere vero?
Che una donna, nello stesso giorno, perda il figlio non ancora nato per mano di un pazzo assassino e il marito per un incidente d’auto ci sta – terribile eventualità, ma ci sta. Ma che la stessa donna, dopo essersi in qualche modo rimessa in piedi, scopra anche di soffrire, a soli 38 anni, di una forma precoce di Alzhaimer?
Ecco, per me questo è semplicemente troppo. E non importa se alla fine Musso ha provato a indorarci la pillola, inserendo quel finale più dolce che agro che parla di speranza. Per me il finale resta un mero contentino – anche poco sensato, se devo dirla tutta. Non mi ha commosso, non mi ha riconciliato col mondo o con questa storia.
Mi ha lasciato solo la frustrante sensazione di aver letto una storia di fantasia, una storia costruita a tavolino. Una storia che, con la vita vera, non ha davvero niente a che vedere.