Ero consapevole sin dall’inizio che il mio settimo anno veneziano sarebbe stato il più difficile da gestire e superare. E allora sono entrato sin da subito nella modalità “io speriamo che me la cavo”… e la cosa ha pagato.
Ho stretto i denti quando il dolore fisico era quasi insopportabile. Ho praticato l’arte della pazienza come mai prima nella mia vita, quando il sistema di prenotazione online spingeva migliaia di colleghi sul baratro dell’isteria.
Ho bevuto e mangiato e dormito quando gli incastri delle proiezioni lo consentivano. Ho preso traghetti all’alba e/o a mezzanotte, facendo la gioia del mio osteopata, visto tutto il lavoro che dovrà fare nel prossimo futuro.
Sono stato il più tollerante possibile nei confronti di registi e film, resistendo in sala quando, se avessi dovuto seguire l’istinto, me la sarei data a gambe. Solo un paio di volte ho ceduto al richiamo di Morfeo.
Eppure, nonostante il mio animo zen e gli anni da inviato che ho sulle spalle, superare lo shock di ieri è stato impossibile. Non è la prima volta che buco un film – e nemmeno un vincitore – ma non mi era mai successo di farlo perché non l’ho proprio visto sul programma.
Sì, avete capito bene: “All the beauty and the bloodshed” di Laura Poitras non è stato coperto perché sulla mia agenda non c’era proprio. Come ho fatto a perderlo? Sono diverse ore che me lo chiedo, da quando la collega Federica Rizzo mi ha scritto il titolo del Leone d’oro di quest’anno, e ancora non ne sono venuto a capo.
Ma quest’anno, mentre sul treno scrivo questa cartolina di chiusura dal Festival, sentendomi una via di mezzo tra Tafazzi e il fantomatico smemorato di Collegno, penso che nessuna delle mie disavventure precedenti da inviato sia stata così tragicomica.
Ci vediamo tra dodici mesi, Venezia, sempre se mi ricordo di presentare la domanda di accredito!