Per l’inviato ai Festival del cinema l’espressione “non succede, ma se succede” assume un significato molto diverso da quello scaramantico-positivo dello sportivo medio.
Quando si supera la metà di una kermesse succede sempre che inizino a circolare rumor e indiscrezioni su papabili premi e vincitori. Notizie con del fondamento oppure campate in aria? Difficile dirlo, ma nel dubbio il panico è assicurato!
Cosa dovrebbe fare, l’inviato già allo stremo delle forze? Andare avanti con la lista della Direttora, che nove su dieci non comprende nessuno di questi “nomi sussurrati”, oppure fare uno sforzo e dar loro almeno un’occhiata, just in case? Personalmente, nonostante lo sforzo sovrumano, cerco sempre di orientarmi sulla seconda opzione. Non si sa mai.
Ed ecco allora il mio blocco di papabili vincitori, recuperati – e non, come leggerete alla fine.
1. “PETROV’S FLU”: UN DELIRIO CAOTICO SUL DESTINO DELLA RUSSIA
Un film di Kirill Serebrennikov. Con Semyon Serzin, Chulpan Khamatova, Aleksandr Ilin (II), Nikolay Kolyada, Yuri Kolokolnikov. Drammatico, 145′.
Il film di Kirill Serebrennikov, regista russo aperto oppositore di Vladimir Putin, è troppo lungo, folle, surreale, logorroico.
La storia personale di Serebrennikov – arrestato durante le riprese del suo film precedente, “Summer “(2017), per una storia poco chiara di finanziamenti illeciti al suo teatro Gogol di Mosca, oggi libero ma ancora impossibilitato a lasciare il suo Paese e quindi ad accompagnare a Cannes la sua creazione – non può non ispirare simpatia.
Ma questa non si estende a “Petrov’s Flu”, che sembra una versione russa e dark-distopica de “I mostri”. La sceneggiatura è dispersiva, caotica, racconta una Russia dove violenza e ferocia sono accettate come normali dalla popolazione. Lo spettatore ci prova a entrare in connessione con questo mondo grottesco e bizzarro, ma viene respinto a più riprese.
È il classico film festivalerio, che si ama oppure si odia con tutte le proprie forze. Personalmente sono scappato dalla sala dopo un’ora e mezza, non resistendo più davanti alla mattanza scatenata da una madre e moglie improvvisamente posseduta…
2. “THE STORY OF MY WIFE”: L’INCOMUNICABILITÀ TRA UOMO E DONNA IN UN MELODRAMMA AMBIENTATO NEGLI ANNI ’20
Un film di Ildikò Enyedi. Con Léa Seydoux, Louis Garrel, Jasmine Trinca, Gijs Naber, Josef Hader, Sergio Rubini. Commedia, 169′. Germania, Ungheria, Italia 2020
Probabilmente una delle sceneggiature più chiare e lineari di questa edizione di Cannes, ma anche in questo caso la lunghezz aè un grosso problema. Perché infliggere allo spettatore quasi 3 ore di girato, quando una riduzione di almeno un’ora avrebbe giovato a tutti?
Jacob Störr (Naber), capitano di una nave mercantile tranquillo e di poche parole, quasi per gioco decide di proporsi alla prima donna che farà il suo ingresso nella taverna da lui abitualmente frequentata. Ed è così che si ritrova, come un pesce fuor d’acqua, in un appartamento di Parigi, sposato con l’avvenente e misteriosa Lizzy (Seydoux).
Un uomo che si innamora perdutamente e poi perde la testa, nel vano tentativo di farsi amare a sua volta, è una storia che abbiamo visto al cinema innumerevoli volte. La particolarità, in questo caso, è che Jacob si consuma fin quasi a compiere un gesto estremo mantenendo un aplomb esterno invidiabile – merito dello spirito nordico del suo interprete, Gijs Naber?
L’attore è intenso e meritevole di menzione, quanto meno. Meno Louis Garrel, di cui ci si ricorda solo nei titoli di coda, e i nostri Sergio Rubini e Jasmine Trinca, che interpretano personaggi marginali e quasi macchiettistici.
E poi c’è “Titane” di Julia Ducournau, che avrei dovuto vedere (e che la direttora ha recuperato in quel di Londra). Ma l’ingresso in sala mi è stato sbarrato da un addetto molto solerte che mi ha fatto notare come io fossi in ritardo. E di recuperare il film un altro giorno, quest’anno, non c’è stato modo.