Il 25 maggio del 1944 – ultimo giorno di guerra a Littoria – nel breve intervallo tra la partenza dei tedeschi e l’arrivo in città degli angloamericani, Diomede Peruzzi entra nella Banca d’Italia devastata e ne svaligia il tesoro. È qui che hanno inizio – diranno – la sua folgorante carriera imprenditoriale e lo sviluppo stesso di Latina tutta. Ma sarà vero? Il Canale Mussolini intanto – dopo essere stato per mesi la dura linea del fronte di Anzio e Nettuno – può tornare a essere quello che era, il perno della bonifica pontina. In un nuovo grande esodo, che ricorda quello epico colonizzatore di dodici anni prima, gli sfollati lasciano i rifugi sui monti e tornano a popolare la città e le campagne circostanti. I poderi sono distrutti, ogni edificio porta i segni dei bombardamenti. Ma il clima adesso è diverso, inizia la ricostruzione. Nel resto d’Italia però la guerra continua e si sposta man mano verso il nord, mentre gli alleati – col decisivo ausilio delle brigate partigiane e del ricostituito esercito italiano – costringono alla ritirata i tedeschi e le milizie fasciste. È una guerra di liberazione, ma anche una guerra civile crudele e fratricida. E la famiglia Peruzzi, protagonista memorabile della saga narrata in queste pagine, è schierata su tutti i fronti di questo conflitto.
Faccio una premessa. Quando nel 2010 Antonio Pennacchi vinse il Premio Strega con “Canale Mussolini“, mi sembra di ricordare che i commenti sull’opera non furono concordi e unanimi. A qualcuno il libro piacque, qualcuno invece lo criticò aspramente (evidenziando limiti e difetti della narrazione che molto probabilmente erano reali).
Ebbene, io, per qualche strano motivo (dal momento che sono Toscana, il veneto lo intuisco a naso più che capirlo e non sono nemmeno una grandissima appassionata di quel periodo storico), facevo parte della prima categoria, di quelli che hanno apprezzato la storia della famiglia Peruzzi, l’intreccio un po’ caotico, lo stile particolare con i pesanti inserti di battute di dialogo in dialetto.
Potete credermi sulla parola, quindi: quando ho visto che Pennacchi aveva dato seguito alla sua storia, pubblicando “Canale Mussolini. Parte seconda” mi sono procurata il libro con la migliore disposizione d’animo possibile, ed è allo stesso modo che mi sono messa a leggerlo. Non ero prevenuta, per venire al dunque, tutt’altro! Dopo essere stata bene impressionata dalla Prima Parte, dal seguito mi aspettavo solo bene.
Ecco appunto. Come non so spiegare perché il Canale Mussolini del 2010 mi abbia conquistata, allo stesso modo è complicato spiegare perché quello del 2015, che riprende la storia praticamente da dove ci siamo lasciati, portandoci dal Fascismo alla Seconda guerra mondiale, dalla Liberazione alla Ricostruzione, mi abbia colpita in negativo, annoiandomi, lasciandomi spaesata. Ho dovuto faticare non poco, per arrivare alla fine del libro; ho dovuto faticare non poco per non perdere il filo.
Probabilmente uno dei principali problemi del romanzo è proprio questo: letto a distanza di anni dalla prima parte, risulta confusionario e dispersivo, difficile da seguire. In “Canale Mussolini” dei personaggi facevano la prima conoscenza, quindi in un modo o nell’altro questi venivano introdotti nelle pagine via via, un po’ alla volta e dando qualche spiegazione. Qui questo non succede. Pennacchi tira le fila di una storia già nota, almeno secondo il suo punto di vista, riparte col racconto come se dal primo libro non fossero passati che pochi giorni. In realtà il lettore medio, se ha letto Canale Mussolini, lo avrà fatto nel 2010, massimo 2011 – come me – e dei Peruzzi avrà da tempo visto sbiadire il ricordo.
Se riuscire a riprendere in mano le fila del discorso è complicato, lo è altrettanto ritrovare la sintonia e l’empatia nei confronti dei protagonisti. Non so se è dipeso da un mio stato d’animo diverso, ma “allora” ero riuscita a entrare in sintonia con alcuni membri della famiglia, a emozionarmi per loro, ad affezionarmi. Questa volta è stato impossibile. Dovendo dare una definizione, “Canale Mussolini. Parte Seconda”, nonostante racconti una mole sterminata di fatti e aneddoti (ci arriveremo tra un attimo), dà l’impressione di essere molto freddo, molto meno partecipato. Sembra di trovarsi davanti a uno sfoggio di retorica e di sapere storico, più che a un romanzo. I personaggi scorrono come figurini di carta, impegnati a fare questo e quello senza però riucire a trasmettere alcunché a chi legge.
Dicevo dei fatti e degli aneddoti raccontati. Per quanto io sia un’appassionata di storia, quindi tutto sommato ben disposta a leggere di quando in quando qualche notazione archeologica, culturale o sociologica in un libro, trovarsi davanti pagine e pagine di digressioni sulla fondazione di Littoria/Latina, sull’urbanistica cittadina, e dopo sulla Resistenza in Italia, è troppo. L’impulso di saltare a pie’ pari ogni brano che non presenti battute di dialogo è stata forte. Va bene contestualizzare i personaggi, ma quando per decine e decine di pagine dei Peruzzi non si trova traccia qualche dubbio viene. È un romanzo o un saggio di storia? Per quanto possano essere interessanti le cronache di quanto avvenuto nel nostro paese tra il 1943 e il 1945, qui la ricostruzione si dilunga troppo per risultare sopportabile. C’era bisogno di raccontare decine di episodi? Di elencare nomi, età, professioni dei morti in celebri – e meno celebri – eccidi?
Che dire poi di quelle sfilze interminabili di nomi di paesi, cittadine e poderi. È vero che realismo vuole che i fatti si raccontino come sono andati, però andiamo, è sempre un’opera di narrativa! Al lettore cosa interessa di sapere per filo e per segno chi dei parenti è sfollato dove ed è tornato da dove? C’è una tendenza all’accumulo e all’elenco che finisce per risultare insopportabile.
Anche lo stile di Pennacchi, che l’altra volta mi aveva coinvolta e conquistata, mi è sembrato a tratti irritanti – soprattutto quel suo fare ironia contemporanea praticamente a caso. Tra battute in dialetto, elenchi di nomi, descrizioni interminabili ci mancavano davvero un paio di of course.
Il narratore in prima persona, purtroppo, si perde del tutto tra elenchi, ricostruzioni, episodi dei più disparati. La sua voce si sente a malapena, certo non abbastanza per tenerci avvinti alle vicende della sua famiglia – o svegli, se è per questo. Piano piano capiamo chi è, questo personaggio, ma la rivelazione non ci provoca alcuna emozione. Non c’è suspense, non c’è curiosità.
Alla fine il libro dà l’impressione di essere un caotico miscuglio, un patchwork di episodi legati insieme senza anima. Difficile da leggere, e pesante, per giunta.