È autunno, a New York. Il secondo senza le Torri. Liat ha appena conosciuto Hilmi e gli cammina accanto nel pomeriggio che imbrunisce, mentre pensa: Non hai già abbastanza guai? Fermati, finché puoi! Ma fermarsi non può, perché, nonostante le ferite, la magia della Grande Mela è ancora intatta, e Hilmi ha gli occhi dolci e grandi, color cannella, riccioli neri e un sorriso infantile che spezza il cuore. Lei è di Tel Aviv, fa la traduttrice e si trova negli USA grazie a una borsa di studio. Ha servito nell’esercito e ama la sua famiglia (Che cosa penserebbero, se lo sapessero?). Lui vive a Brooklyn e fa il pittore, e nei suoi quadri c’è sempre un bimbo che dorme e sogna il mare, quel mare di cui da ragazzo poteva cogliere appena un lembo, da lassù, al nono piano di un palazzo di Ramallah. Che questo amore sia un’isola nel tempo, si dice lei. Un amore a cronometro, un amore a scadenza, la stessa indicata sul visto, la stessa impressa sul biglietto del volo di ritorno per Israele, verso la vita reale. Finché, mentre oscillano tra l’ebbrezza della libertà e il senso di colpa, scoprendosi accomunati dalla nostalgia per quello stesso sole e quello stesso cielo, la vita reale non bussa davvero alla loro porta…
Capire perché “Borderlife” di Dorit Rabinyan sia stato messo al bando nelle scuole in Israele non è complicato. Basta leggere la trama per rendersi conto che, in una società che ancora si regge sull’identità religiosa e, per certi versi, razziale come quella israeliana un romanzo che racconti l’amore di una ragazza ebrea con un ragazzo palestinese sia scandaloso, potenzialmente pericoloso, da tenere lontano dai giovani.
Eppure siamo nel 2016. Eppure, dall’alto della nostra tanto decantata modernità, idee come queste ci appaiano retrograde e terribili. Eppure… eppure siamo davvero tanto più aperti di ebrei e arabi, quando si tratta di accettare quello che è diverso da noi – sia per colore della pelle, lingua, religione, cultura?
Lasciamo stare le questioni etiche e filosofiche – è giusto “bandire” un libro? È giusto condannare un sentimento? È giusto imporre alle persone chi amare? – almeno in questa sede, altrimenti non ne usciamo. Ogni lettore e ogni individuo ha gli strumenti per costruirsi una propria idea e darsi le sue risposte.
Dicevamo che il libro della Rabinyan è stato – usando un modo di dire quanto meno anacronistico – messo all’indice. Per quanto l’azione in sé sia riprovevole – non ci riferiamo al caso specifico, a questa autrice e a questo romanzo, ma all’atto di bandire in sé che, quando si parla di libri, a mio modesto parere non dovrebbe esistere – non si può negare che abbia fatto la fortuna di “Borderlife”.
Uscito nel 2014, il romanzo è salito agli onori della cronaca recentemente, quando il Ministero dell’istruzione israeliano ha proibito di includerlo nei programmi scolastici perché promuoverebbe “i matrimoni misti tra ebrei e arabi e l’integrazione”. A questo sono seguite le prese di posizione di molti intellettuali, i dibattiti, e naturalmente la voglia delle persone comuni di leggere la “pietra dello scandalo”. In Italia “Borderlife” è uscito il 29 aprile, edito da Longanesi.
Polemiche di contorno a parte, com’è il romanzo? Personalmente l’ho trovato un po’ pesante, eccessivamente descrittivo, lungo. A raccontare la storia è principalmente la protagonista femminile, Liat, 29enne israeliana, traduttrice, a New York per un periodo di alcuni mesi.
Non si può non riconoscere alla sua voce – e quindi, indirettamente, allo stile della Rabinyan – un forte realismo. Per una volta è bello vedere che l’amato non è bello, bravo, col fisico scolpito, perfetto, ma è una persona con pregi e difetti – anche fisici. E naturalmente, come accade nella vita reale, i capelli, gli occhi, il corpo passano poi in secondo piano, quando nasce un sentimento.
Realismo nelle descrizioni, dicevo, però anche un ricorso talvolta eccessivo alla divagazione, ai riempitivi anche lirici, alle chiacchiere. Attraverso la voce di Liat penetriamo nel mondo di una donna israeliana trapiantata per un periodo negli Stati Uniti – con tanto di incontro poco piacevole con l’FBI – però a tratti il suo modo di pensare complesso, articolato, profondo stanca.
La storia d’amore tra i due protagonisti non può non far pensare, con i dovuti aggiustamenti, a un Romeo e Giulietta in chiave moderna. Il senso di ineluttabile che fin dall’inizio grava su di loro, il sentimento destinato a finire, la “scadenza” del 20 maggio, quando Liat dovrà tornare a Tel Aviv, incombono fin da principio, come nubi minacciose all’orizzonte.
E nonostante questo, nonostante la malinconia che permea ogni pagina – come se, anche se ancora alla fine non siamo arrivati, già si sapesse molto bene cosa succederà -, in “Borderlife” c’è anche una potente spinta alla vita, se non all’ottimismo quanto meno alla speranza.
L’essere umano è portato per sua stessa natura a provare sentimenti, a impegnarsi in situazioni, a mettersi in gioco. È portato a farlo anche quando i pronostici sono tutti contro di lui. Liat ed Himmli non vedono un futuro per loro, non osano nemmeno immaginarlo, eppure non riescono a non amarsi, a non vivere questa storia, anche se parte con le settimane contate. Questo mi sembra un grande messaggio: mai farsi frenare dalla paura, dai pronostici avversi. Vivere qualcosa, per quanto il finale potrebbe non essere quello che sogniamo, vale sempre e comunque la pena. Perché dopo ogni esperienza siamo persone diverse, per certi versi migliori, sicuramente più ricche.