Un film di Danny Boyle. Con Michael Fassbender, Kate Winslet, Sarah Snook, Seth Rogen, Jeff Daniels, Michael Stuhlbarg. Biografico, 122′. 2015
Probabilmente sono uno dei pochi, nel 2016, ad avere una cultura informatica prossima allo zero unita a un rapporto conflittuale con la tecnologia. I computer li ho amati da piccolo, per via dei videogame, e oggi me ne servo principalmente per scrivere e inviare mail e soprattutto per fingere di essere un tipo social.
Premessa necessaria per spiegarvi perché, nel mio personale pantheon, figure come quella di Steve Jobs non ricoprono una posizione preminente, da semi-divinità, per intenderci. Eppure, nonostante questo, ho scelto di vedere il film sul fondatore della Apple e, di fatto, moderno Leonardo DaVinci dell’informatica.
Un primo tentativo di celebrare la figura di Jobs portandola sul grande schermo era stato già fatto due anni fa. Il film di Joshua Michael Stern, con protagonista Ashton Kutcher, però, non è stato un gran successo ed è stato presto messo nel dimenticatoio. Nonostante quel flop, Danny Boyle e Aaron Sorkin hanno deciso di provare nuovamente a lavorare con questa materia, raccontando la vita di Steve Jobs dalle origini al successo, convinti che fosse meritevole di uno sforzo produttivo e artistico.
Hanno avuto ragione a insistere? Direi di sì, dal momento che il sottoscritto è riuscito a vedere la pellicola fino alla fine, facendosi nel complesso prendere dalla storia per merito di un’ottima sceneggiatura e di una convincente struttura narrativa.
Nella mia memoria di persona comune c’è il ricordo di Jobs in jeans e maglione nero, mentre presenta dal palco le sue diavolerie davanti a una platea entusiasta. L’idea vincente dello sceneggiatore Sorkin è proprio quella di scegliere di ricostruire non tanto le varie fasi della vita dell’uomo-Jobs (che si vedono, certo, ma quasi come corollario), ma di mostrarlo al culmine dello splendore, ovvero durante le presentazioni che hanno costellato la sua carriera, decretandone trionfi e rovinose cadute.
Lo spettatore è accompagnato in tre distinti viaggi del tempo: 1984, 1988, 1998. In tutti e tre i momenti, riporta la storia, Jobs cercò di convincere il mondo della sua visione di modernità e di come la società avrebbe dovuto aprirsi a essa.
È come trovarsi davanti a tre atti teatrali in fieri, dove viene raccontato non solo lo spettacolo in quanto tale ma anche i momenti che precedono le presentazioni nel corso dei quali Jobs (Fassbender) è chiamato a confrontarsi non solo i suoi collaboratori e soci, ma anche con una vita personale travagliata e turbolenta. Un dietro le quinte regolato dall’onnipresente Joanna (Winslet), direttore marketing della Apple, scandito dai duri confronti con i tecnici, pungolati fino all’estremo perché diano sempre il meglio, e dalle discussioni agrodolci con l’amico di sempre Steve (Rogen) e con John Sculley (Danies), amministratore delegato della società.
A Steve Jobs non vengono fatti sconti – così lo spettatore si trova davanti un uomo antipatico, sicuro di sé fino all’eccesso, arrogante, convinto della sua visione delle cose, egoista. Un uomo che però si rivela essere un vero leader, carismatico, capace d’infiammare le folle e di imporre le proprie idee con le cattive.
Nella pellicola non viene però tratteggiato solo il lato pubblico del personaggio; altrettanta attenzione e precisione viene riservata all’uomo-Jobs, che spesso dimostra di essere ben poco umano ed empatico, tanto, ad esempio, da rifiutare per lungo tempo la paternità di una figlia che il test del Dna aveva attestato come sua al 94%.
Una sceneggiatura quasi teatrale, asciutta e ben scritta, che riesce con la forza delle parole a dare vivacità e pathos a una storia di per sé assai statica e dai ritmi compassati. Il testo tende un po’ a perdersi quando descrive con eccessivi tecnicismi il lavoro di Jobs, risultando arido e di difficile lettura per un pubblico di non specialisti. Comunque non stupisce che la sceneggiatura sia stata premiata ai Golden Globe.
La regia di Danny Boyle è pulita, ordinata, attenta a seguire le indicazioni del testo, ma priva di quel guizzo che ci saremmo aspettati dal regista inglese.
Michael Fassnbender è uno Steve Jobs credibile; il suo personaggio ha una struttura psicologica convincente, non risulta finto ma sfaccettato anche nelle sue asprezze caratteriali ed emotive.
Se la performance del protagonista è di rilievo, lo è ancora di più quella di Kate Winslet, vincitrice con merito del Premio come migliore attrice non protagonista ai Golden Globe. L’attrice mostra talento, intensità interpretativa e personalità nel mettere in scena la sua Joanna, unico punto di riferimento per Jobs soprattutto sul piano affettivo.
Il resto del cast è talentuoso e all’altezza del compito. Una menzione speciale la merita Jeff Daniels che si conferma in un’annata felice dopo la bella prova in “Sopravvissuto – The Martian” di Ridley Scott (qui potete leggere la recensione su Parole a Colori).
Il finale, sebbene sia la parte meno riuscita del film con il suo essere frettoloso e forzatamente buonista, permette allo spettatore di guardare con un pizzico di affetto in più all’uomo che, volenti o dolenti, ha rivoluzionato il mondo moderno con il suo genio e le sue idee.
Il biglietto d’acquistare per “Jobs” è: 1)Neanche regalato; 2)Omaggio; 3)Di pomeriggio; 4)Ridotto; 5)Sempre.