Un film di Raymond Depardon. Documentario, 87’. Francia, 2017
Sapete bene, cari amici lettori, quanto mi stia a cuore la tematica del disagio mentale, dei diritti dei malati e del trattamento che il paziente psichiatrico riceve ancora oggi da parte della società.
Sfogliando il ricco programma di Cannes70 non ho avuto esitazioni a segnarmi tra le pellicole da vedere e recensire “12 days”, documentario del francese Raymond Depardon inserito tra gli eventi speciali del Festival.
La malattia mentale è ancora oggi un tabù, di cui si parla poco e su cui regnano grandi pregiudizi.
Andare in terapia e assumere psicofarmaci ti rende agli occhi dei “sani” né più né meno che un appestato, anche se, in faccia, tutti ti diranno che un percorso di cura è cosa buona e giusta, una deviazione, niente di cui vergognarsi.
Non tutti sanno, però, che non sempre curarsi è una scelta. Nei casi in cui, a seguito di una crisi, un individuo può rappresentare un pericolo per sé e per gli altri la giurisdizione italiana prevede il Tso (trattamento psichiatrico obbligatorio), una procedura in base alla quale viene disposto il ricovero coatto per almeno sette giorni del soggetto, con cure farmacologiche obbligatorie.
Basta fare una rapida ricerca online per trovare i racconti, numerosi e dolorosi, di chi ha provato il Tso, un’esperienza che può stravolgerti, privandoti di ogni diritto e libertà. Per salvaguardare la tua salute, certo.
Questa è l’Italia. Ma cosa succede all’estero? Ad esempio, come funziona la procedura nella patria dell’Illuminismo?
Iniziamo con qualche numero: ogni anno, in Francia, 92.000 persone tra uomini e donne subiscono l’internamento obbligatorio, per una media di 250 persone al giorno.
Raymobd Depardon nel documentario “12 days” ci racconta come sono cambiate le cure ai malati mentali dal punto di vista legale e sanitario a partire dal 27 settembre 2013, quando è stato istituita la figura del giudice della libertà.
Prima di quella data una persona poteva essere sottoposta al ricovero coatto su decisione unica e insindacabile dello psichiatra, e per lo sventurato/a di turno le porte del reparto psichiatrico si aprivano per almeno sei mesi, senza possibilità di appello.
La nuova legge concede invece al paziente, entro dodici giorni dal ricovero, di chiedere udienza al giudice, avendo l’opportunità di dimostrare la propria sanità mentale e riottenere quindi la libertà.
Depardon ha avuto l’opportunità di filmare diverse udienze, e lo spettatore può quindi osservare e ascoltare i casi dei pazienti, ma sarebbe più giusto chiamarli povere anime, che si ritrovano smarriti, persi, in evidente difficoltà a doversi difendere in pochi minuti.
Lo schema delle udienze è sempre lo stesso: un giudice – in tutto sono quattro, due uomini e due donne – seduto di fronte al paziente che è in compagnia del proprio avvocato.
Il giudice legge la perizia redatta dallo psichiatra (non presente in seduta) che ha ordinato il ricovero, e pone alcune domande al paziente per valutare se la procedura di ospedalizzazione obbligatoria è stata eseguita correttamente e se il soggetto ha davvero bisogno del trattamento. Generalmente l’avvocato interviene per ultimo, per sostenere legalmente la causa del suo assistito.
“12 Days”, per lo spettatore medio, potrebbe risultare una proiezione noiosa, lenta e ripetitiva, ma andando oltre l’apparenza non si può non essere coinvolti dalle parole, dalla fisicità e dall’evidente debolezza di ogni paziente, che sembra parlare anche a chi è seduto in platea creando un ponte emotivo.
Probabilmente quello di Depardon non è il prototipo del documentario perfetto – sarebbe stato meglio asciugarlo un po’, e un montaggio diverso avrebbe aiutato a rendere la visione più accattivante e meno statica – ma mai come in in questo caso più che l’estetica contano i contenuti. E quelli ci sono, e in abbondanza.