“Parliamo delle mie donne”: una commedia sull’amore e le sue anime

Claude Lelouch dirige un Johnny Hallyday ispirato, impegnato a ricucire i rapporti con le 4 figlie

di Eleonora Savona

 

Un film di Claude Lelouch. Con Johnny Hallyday, Sandrine Bonnaire, Eddy Mitchell, Irène Jacob, Pauline Lefèvre. Commedia, 124′. Francia, 2014

 

Il regista Claude Lelouch è uno dei mostri sacri del cinema d’Oltralpe, con oltre cinquanta film girati in sessant’anni di attività e diversi riconoscimenti, tra cui due premi Oscar.

Il suo ultimo lavoro, “Parliamo delle mie donne”, è prima di tutto una storia d’amore.

Jaques Kaminsky (Hallyday), fotografo di guerra di fama internazionale, realizza di essere stato un padre assente per le figlie, avute da quattro relazioni diverse e in momenti diversi della sua vita.

In un paesino ai piedi del Monte Bianco, in una splendida baita che ha del fantastico, con la sua nuova compagna Nathalie (Bonnaire), l’uomo sente il bisogno di riconciliarsi con loro. Per realizzare il suo desiderio, e riunire le quattro, l’amico di sempre Frédéric (Mitchell) organizza una messinscena.

Jaques ha quindi la possibilità di vivere le sue figlie in un ambiente familiare e quotidiano, fino ad allora sconosciuta.

L’amore è il filo conduttore della narrazione, ciò che orienta le interazioni tra i personaggi. Un amore declinato in diverse forme: quello che prova un padre per i figli, quello che lega i figli al padre; quello che unisce due amanti ma anche due amici.

Le quattro figlie – Primavera (Jacob), Estate (Lefèvre), Autunno (Kazemy) e Inverno (Thiam) – molto diverse sia fisicamente che caratterialmente, rappresentano il tempo che passa, le fasi della vita del protagonista e i suoi errori.

Distanti l’una dall’altra, condividono però i sentimenti per il padre: nonostante lo considerino un bastardo, non possono fare a meno di amarlo – e quindi di odiarlo per la sua assenza.

Condizione, in effetti, condivisa quasi da tutti quelli che si trovano ad avere a che fare con Jaques Kaminsky che pare esercitare un fascino irresistibile sulle persone, che poi svanisce e lascia solo malinconia e un senso di irrisolto.

In questo Johnny Hallyday, considerato tra le più grandi rock star francesi viventi, risulta perfetto. Il suo volto, il suo modo di occupare lo spazio, si prestano totalmente a dar vita a Kaminsky, che sembra un personaggio cucitogli addosso.

Unico elemento costate della vita di Jaques, oltre al lavoro, è l’amico Frédéric. Ed è proprio lui che risulta immune al fascino del fotografo, cogliendone anche debolezze e turbamenti, perché, come viene ripetuto più volte nel film, “un amico è qualcuno che ti conosce bene e che ti vuole bene sempre e comunque”.

Sulla base di quel “comunque” Frédéric prova ad accelerare lo svolgersi degli eventi, ben consapevole delle responsabilità che l’amico rifugge da una vita, chiudendo tutti i personaggi in una sorta di limbo e costringendoli al confronto.

In uno scenario magnifico, l’occhio del regista indaga i rapporti tra i personaggi, portando con sé lo spettatore. Tuttavia ciò che mostra è uno sguardo irreversibilmente maschile, che indaga però vite, reazioni e sentimenti di donne.

Primavera, Estate, Autunno e Inverno, ad esempio, esistono solo in relazione al padre, costituiscono un blocco unico da cui Jaques, ma anche lo spettatore, percepisce un unico movimento. Di Nathalie, invece, la nuova compagna di Jaques, sappiamo solo che è vedova e agente immobiliare.

Ma dal momento che il titolo del film è “Parliamo delle mie donne” – e non, ad esempio, “Lasciamo parlare le mie donne” – si potrebbe pensare che ad essere mostrata sia la realtà percepita dal fotografo, parziale e limitata.

Tuttavia rimane una senso di vuoto, di incompleto, come se ci si fermasse sempre un attimo prima di cogliere la totalità dei sentimenti e dei rapporti.

Perché, alla fine, su questo si poggia la narrazione: sui rapporti tra un padre e le sue figlie e sui sentimenti che ne regolano le dinamiche. Quando alcuni aspetti delle relazioni devono essere detti ed esplicitati per essere percepiti, inevitabilmente si crea quel senso di irrealtà che tiene a distanza lo spettatore.

Una menzione speciale la merita la colonna sonora, che spazia da “Le quattro stagioni” reinterpretate da Francis Lai e Christian Gaubert a “Les eaux de mars” di Georger Moustake, fino a Ella Fitzgerald e Louis Armstrong.

Nell’insieme un film che merita di essere visto, anche solo per completezza e per averne un’opinione.

 

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