Intervista allo scrittore Marco Proietti Mancini

di Ilaria Grasso

 

Nato a Roma, Marco Proietti Mancini, è un grande appassionato della Città eterna, dove ancora vive, e di quella varia umanità che ama raccontare nei suoi libri. Il suo ultimo lavoro, “La terapia del dolore”, è uscito il 1 gennaio per Historica.

Abbiamo parlato di questo e di molto altro con l’autore.

Marco Proietti Mancini
Lo scrittore Marco Proietti Mancini.

Ciao Marco, bentrovato, grazie per aver accettato questa intervista. È vero che ti sei avvicinato alla scrittura piuttosto tardi – anche se personalmente ritengo che non sia mai troppo tardi?

Grazie a te, Ilaria. La risposta è no, non ho incontrato tardi la scrittura, anzi. Scrivo praticamente da sempre e da sempre invento storie, fantasie e racconti. La questione è che tenevo tutto per me. Poi piano piano, grazie alla rete, ho iniziato a condividere qualcosa e quel qualcosa è piaciuto e c’è stata qualche richiesta di pubblicazione. Ecco, semmai tardi sono arrivato a pubblicare, ma il fatto è che tra le priorità della vita, prima della pubblicazione, ce ne sono state altre. Il lavoro, perché scrivere è poco remunerato e non permette di mantenersi, se non a pochissimi; la famiglia; altre passioni. Diciamo però che dal 2012 ad oggi lo spazio per recuperare c’è stato; in quattro anni sono arrivati quattro romanzi, più uno in pubblicazione e un altro terminato, una raccolta di racconti tutta mia e la partecipazione a un sacco di progetti collettivi, in un paio dei quali oltre a contribuire ho anche svolto l’attività di curatore.

Roma è la città dove sei nato e dove vivi. Quanto è importante per quello che scrivi?

Dipende. In alcuni dei miei romanzi e racconti lo è tanto da esserne protagonista; addirittura in alcuni racconti posso affermare che senza Roma, come sfondo e ambientazione, i racconti stessi non avrebbero lo stesso senso o non ne avrebbero alcuno. Senza nessuna presunzione, è come per i “Racconti romani” di Moravia: non potrebbero essere altro che quello e quelli, a Roma e solo a Roma. Quello che descrivo non potrebbe succedere in nessun altro posto. Il segreto è rendere plausibile e reale questa circostanza.

La scrittura ci salverà?

Mi verrebbe da rispondere: “magari”, ma sconsolatamente devo rispondere che no, non sarà la scrittura che ci salverà, perché per quanto la scrittura (e più in generale la cultura e l’arte) possano essere salvifiche e socialmente indispensabili, ci sarà sempre un abisso di ignoranza che può cancellare con un solo passo falso migliaia di progressi. Pensiamo solamente a ciò che viene distrutto, nell’assurdo tentativo di cancellazione, da qualsiasi dittatura o nuovo movimento di imbarbarimento. I libri vengono messi all’indice e bruciati, le statue frantumate, i dipinti censurati e coperti. La cultura non ci salverà, ma ci sopravviverà, quello sì. E la speranza è solo questa.

Parliamo delle tue opere, diverse l’una dall’altra ma accomunate da un sottile filo conduttore, l’introspezione e le sfaccettature dell’essere umano. Quanto è importante, per uno scrittore, attingere dal palcoscenico della vita? Può esistere una scrittura che sia avulsa dalla vita?

Per quanto mi riguarda assorbire “vita” da ciò e da chi mi circonda anche solo il tempo di un passaggio veloce – lo sfiorare un’esistenza durante un viaggio in treno o su una spiaggia o ovunque altro accada – è fondamentale. I miei romanzi e le mie storie sono cronache di vite e fatti, inventati ma ispirati a esistenze reali, o che almeno io credo tali. Forse per questo spesso vengo indicato come uno scrittore che scrive storie autobiografiche. La cosa divertente è che se fosse vero avrei dovuto già vivere almeno dieci vite, una per ognuno dei protagonisti dei miei romanzi. Anche se per me è così, comunque, non posso dire che non esiste una scrittura avulsa dalla vita; per certi scrittori può non essere una necessità ispirarsi a persone e fatti reali.

La terapia del dolore, Marco Proietti Mancini

“La terapia del dolore” è il tuo ultimo lavoro, uscito in gennaio per Historica. Cosa puoi dirci a riguardo?

Si tratta di un romanzo contemporaneo e introspettivo, che riprende i temi che avevo già trattato in “Oltre gli occhi”. Cosa succede a una persona, a un individuo, quando perde qualcosa che gli sembrava essenziale, vitale? In “Oltre gli occhi” questo qualcosa era la compagna della vita, la serenità della famiglia. Nella “Terapia del dolore” è la salute, con un incidente che trasforma il fisico, ma soprattutto cambia l’anima. Il dolore può essere una terapia? Io non penso di essere capace di fornire risposte, posso solo provare a sollevare domande, anche attraverso i romanzi.

“Il coraggio delle madri”, invece, è incentrato sulla guerra, vista attraverso gli occhi delle donne e per certi versi “oltre gli occhi”, direttamente con l’anima. Com’è nato questo progetto letterario e qual è la sua ambizione più grande?

Il coraggio delle madri” è la prosecuzione di una storia iniziata con “Da parte di padre” e proseguita con “Gli anni belli”. Il protagonista di questi tre romanzi è Benedetto, un ragazzo, poi giovane, nell’ultimo romanzo ormai uomo e padre, che si trasferisce da un piccolo paese della provincia a Roma. I tre romanzi abbracciano l’arco temporale 1915 – 1950 e la mia intenzione, aldilà delle velleità artistiche che vengono giudicate dai critici e dai lettori, era quella di riproporre una specie di “storia minima” del 1900, incentrata sulla vita e le vicende della gente comune, del popolo. Sin dal primo romanzo mi ero detto: “è l’ultimo”; poi, invece, anche per via delle tante richieste, sono dovuto andare avanti. Tanto che adesso è terminato il quarto romanzo di questa storia “unica”, che arriverà fino al 1960.

Hai scritto anche un’opera teatrale, in un unico atto, “In morte dell’uomo Cesare”. Chi è l’uomo Cesare e che esperienza artistica è stata questa?

Cesare è – come dice già il titolo – un uomo. Prima che generale e tribuno e console, uomo. In quanto tale portatore di debolezze, vizi, difetti, meschinerie. Cosa succede a un uomo, potente come Cesare, dopo che è morto? Cosa dicono di lui, quelli che l’hanno amato, odiato, seguito, onorato, o addirittura uno di quelli che l’ha ammazzato? Cosa rimane del suo potere, dopo morto? Nulla. Solo l’umanità recisa. Lui è morto, al centro della scena. Gli altri intorno parlano di lui, ma del Cesare uomo. Lui è morto, ma ascolta e soffre o gioisce. Ognuno di noi, in fondo, è un Cesare, più o meno piccolo. E dopo morti, lo siamo tutti, perché di noi non rimarrà altro che il ricordo di quello che da uomini abbiamo fatto a chi ci era vicino.

Progetti letterari per il prossimo futuro?

Oltre al quarto romanzo sul ‘900, con Benedetto protagonista? La metà di altre mille cose, perché mi piace scrivere, scrivo perché mi piace e non perché ci si guadagni, e allora non mi tiro mai indietro. Mi hanno chiesto di scrivere racconti per antologie, ho due romanzi avviati, parteciperò a un paio di giurie per concorsi letterari. Insomma, mi piace tenermi impegnato.

Il ruolo dello scrittore, oggi, nella società. Quanto abbiamo bisogno di leggere e soprattutto di leggere bene?

Guarda, mi accontenterei che si leggesse. Non amo particolarmente le critiche “a prescindere” sulla letteratura leggera. Giallisti contro intimisti, scrittori impegnati contro scrittori leggeri, librai contro editori ed editori contro agenti. Abbiamo bisogno di leggere di più, tutti. Sai quanti scrittori conosco che mi dicono: “Io non leggo, non ne ho il tempo”? A me sembra impossibile. Come essere vinai astemi o falegnami che non conoscono il legno che lavorano. Da un lato penso che la cultura vada aiutata e sovvenzionata, dall’altro mi rendo conto che, da sempre, l’aiuto alla cultura si è trasformato in finanziamenti all’incultura. Allora mi viene da pensare che forse non sarebbe male inventarsi un’ora a settimana in cui si facesse un corso di “letteratura italiana” nelle scuole dalle medie in su. Non tenuto da professori, ma da “grandi lettori”, che provino a trasmettere ai ragazzi la passione per i libri. Allora forse sì, i libri potrebbero fare del bene.

Siamo in chiusura, Marco. Vuoi lasciare un messaggio ai nostri lettori prima dei saluti?

Un messaggio? Io? Penso di averne già lasciati troppi nelle risposte precedenti. No, guardate, mi sono già sentito affibbiare appellativi come “poeta”, “filosofo”, “Osho web 2.0”. I messaggi non vanno lasciati, è chi legge che deve trovarli nelle parole di chi scrive.