Intervista a Jin Jeon, documentarista, regista del film “Becoming who I was”

Insieme al collega Chang-Yong Moon ha raccontato la storia di Padma Angdu e del suo maestro

La regista e documentarista Jin Jeon insieme al collega Chang-Yong Moon alla Berlinale 2017.

Gli afternoon tea sono momenti preziosi al London Film Festival, che fanno incontrare in piacevoli tete-a-tete due mondi: quello della stampa e quello di chi i film li fa.

Con elegante ritardo, la regista sudcoreana Jin Jeon arriva sorridente e solare al suo tavolo. Si siede, mi siedo, e subito capisco che di fronte a me c’è una donna che il film – “Becoming who I was”, ndr – non l’ha solo fatto, ma lo ha anche vissuto.

Comincia così la mia raffica di domande, per conoscere meglio questa sensazionale documentarista, che insieme al collega Chang-Yong Moon, ha già incantato il pubblico di Trieste e di Berlino – e approfondire il lavoro che sta dietro l’anima del film.

 

Jin Jeon, benvenuta. Come si sente a vedere il suo film al Festival del cinema di Londra?

Sono già stata a Londra prima di oggi, ma è la prima volta che partecipo al festival. Io e Chang-young siamo molto felici e molto onorati di essere qui.

Il documentario ha già partecipato a diversi festival quest’anno. Cosa ne pensa del fatto che così tante kermesse internazionali abbiano selezionato un docufilm che racconta una realtà non molto conosciuta al grande pubblico?

Il film ha debuttato al Festival di Berlino, vincendo il Grand Prix come Best Feature film, e poi a Trento si è aggiudicato il premio del pubblico, cosa di cui siamo molto grati. Per noi si tratta principalmente della storia di due esseri umani, in cui tutti possono riconoscerci a dispetto della cultura, della religione, della etnia. È una storia che ci ha toccato nel profondo e che abbiamo deciso di raccontare per il suo valore universale. Il buddismo tibetano e il concetto del Rinpoche, la reincarnazione di un Lama, possono risultare estranei ai più, è vero, ma il fulcro del racconto sono la crescita, il viaggio per trovare il proprio posto nel mondo. E questi sono temi che qualsiasi spettatore può sentire vicini.

Una scena del documentario “Becoming who I was” di Jin Jeon e Chang-Yong Moon. (2016)

Come avete incontrato Padma Angdu e il suo maestro? E cosa vi ha colpito della loro relazione tanto da farne un film?

Chang-Yong Moon ha incontrato per primo il padrino, nel 2009, durante le riprese di un altro documentario sulla medicina tradizionale asiatica. In quell’occasione notò che c’era un bambino che seguiva l’uomo ovunque, e pensò che fosse qualcosa di unico. La relazione tra i due, l’amore che condividono, erano qualcosa in cui Chang-yong rivedeva lo stesso amore incondizionato di sua madre e per queste decise di metterla al centro di un nuovo progetto. Nel 2010 il bambino è stato riconosciuto come Rinpoche, la reincarnazione di un grande Lama dal Tibet, e questo ha cambiato la storia e il rapporto tra lui e il maestro. Ma nonostante questo quello che abbiamo filmato ci ha toccato nel profondo e pensiamo che toccherà anche le altre persone.

Perché avete scelto la forma del documentario per la vostra storia? Non avete mai pensato di farne un film con attori, invece?

Io e Chang-yong siamo entrambi documentaristi, da undici anni io, da venti lui. Per questo ci siamo trovati, abbiamo lavorato insieme ad alcuni progetti, trovando grande sinergia fra noi e una grande abilità a lavorare in team. Ci capiamo, ci guardiamo e sappiamo esattamente cosa sta succedendo. “Becoming who I was” è un progetto nato dalla nostra comune passione. Se guardo indietro mi rendo conto che ha richiesto molta forza mentale, molta tenacia. Non sapevamo quando sarebbe finito, come sarebbe finito, non sapevamo neppure in che direzione stesse andando. Non credo che la storia si sarebbe potuta rendere con degli attori. Chang-young sa catturare il momento come pochi altri, e credo che solo Padma Angdu e il suo maestro sarebbero stati capaci di rendere il momento.

Padma Angdu in una scena del documentario. Becoming who I was (2016)

Il docufilm mostra anche un lungo viaggio. Lei e Chang-Yong avete viaggiato insieme ai due protagonisti dall’inizio alla fine?

Sì, eravamo sempre con loro, io, Chang-young e una guida locale. Non avevamo una crew, con le telecamere e il suono, ma solo noi con le nostre telecamere. Credo sia per questo che siamo stati in grado di avvicinarci e familiarizzare con Padma e il suo maestro. Abbiamo viaggiato con loro, ovunque. Anche se le scene del viaggio non sono montate in modo cronologico, ma in modo funzionale alla storia, è stato molto difficile stare dietro a ogni scena. Abbiamo incontrato non poche difficoltà: i problemi legati all’altitudine, il freddo, il cibo, l’acqua corrente, l’elettricità scarsa durante la notte. Però noi avevamo comunque alcuni comfort, mentre Padma e il maestro erano lì soli con i loro vestiti, impreparati.

Come hanno reagito il maestro e il Rinpoche all’idea di essere ripresi da due documentaristi?

Le riprese sono cominciate prima che il bambino fosse riconosciuto come Rinpoche. Non capivano perché qualcuno volesse filmare la loro quotidianità. Ma il maestro ha acconsentito, pensava fosse interessante che due sudcoreani volessero filmarlo. Man mano che il progetto progrediva, il maestro e Padma diventavano sempre più consapevoli di quello che stavamo facendo, gli abbiamo sempre mostrato quello che avevamo ripreso. Hanno amato molto il film. Penso che si siano anche divertiti a vedere cosa abbiamo fatto della loro storia. È stata soprattutto la fiducia tra noi che ci ha permesso di filmare così tante cose. Una volta che Padma è stato riconosciuto come Rinpoche abbiamo avuto qualche difficoltà a riprendere nel tempio – il monastero e i monaci non ci hanno permesso di filmare, e quando Padma è stato cacciato ci hanno chiuso le porte in faccia. Ma siamo riusciti a farcela, grazie alla relazione che si è instaurata con Padma e il maestro.

Considerato il dolore della separazione fra il maestro e Padma, darete ai due una copia del video come ricordo della loro esperienza insieme?

Sì, naturalmente, potranno averla.

 

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Federica Gamberini
Bolognese di nascita, cittadina del mondo per scelta, rifugge la sedentarietà muovendosi tra l’Inghilterra (dove vive e studia da anni), la Cina, l’Italia e altre nazioni europee. Amante della lasagna bolognese, si oppone fermamente alla visione progressista che ne ha la signorina Lotti, che vorrebbe l’aggiunta della mozzarella. Appassionata di storie, nel tempo libero ama leggere, scrivere, guardare serie TV e film, e partecipare a quanti più eventi culturali possibile.

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