Berlinale 2017 | Django

di Valeria Lotti

 

Un film di Etienne Comar. Con Reda Kateb, Cécile De France, Maximilien Poullein, Ulrich Brandhoff, Alexandre Sauty. Biografico, 117′. 2017

Reda Kateb è Django Reinhardt. 2017

Il primo lungometraggio del produttore e sceneggiatore francese Etienne Comar, “Django”, ha aperto il Festival del Cinema di Berlino.

A vestire i panni del protagonista Django Reinhardt l’attore Reda Kateb, in quelli dell’affascinante ed enigmatica Louise, Cécile de France.

Il film si concentra su un breve periodo della vita del celebre musicista gitano, quello compreso tra il 1943 e il 1945, in piena seconda guerra mondiale, con la Francia occupata dalle truppe naziste.

La scelta non è casuale: il regista ha precisato in conferenza stampa che non aveva intenzione di girare una biografia di Django, un classico “biopic”, per citare le sue parole, ma piuttosto il ritratto dell’artista in un periodo storico complesso, che l’ha segnato personalmente.

Django, infatti, si trova a dover scappare da Parigi dove vive e si esibisce con successo nei teatri per via delle persecuzioni naziste contro le popolazioni nomadi, a cui lui appartiene.

La vicenda, ovviamente, è stata un po’ romanzata, come ammesso con sincerità dallo stesso Comar, perché nel cinema non si può pretendere di essere fedelissimi ai fatti storici.

Louise, per esempio, è un personaggio fittizio la cui creazione si ispira però alla realtà: Django era uno sciupafemmine, intratteneva numerose relazioni al di fuori del matrimonio, e non è inverosimile che una di esse fosse con una donna raffinata e indipendente come lei. La sua interprete, Cécile de France, la definisce una donna emancipata e libera, probabilmente ritenuta folle all’epoca.

Ma Louise non è l’unica donna forte in questa pellicola: ce ne sono altre due, la moglie e la madre di Django, interpretate da due attrici gitane.

Quel che vediamo è un personaggio apparentemente molto maschio che in realtà è governato dalle donne che lo circondano, come spesso accade ai grandi artisti. Non è un eroe, precisiamo, anzi, è un uomo piuttosto egoista, concentrato sulla sua arte, dimentico del resto; ma in questo breve lasso di tempo, in questa fuga pericolosa, qualcosa cambia e Django prende coscienza del mondo attorno a sé e usa l’arte per ribadire le proprie posizioni politiche e sociali.

Bellissima, coinvolgente, emozionante la musica. D’altronde, cos’altro potevamo aspettarci? Quel che stupisce piacevolmente è la scelta di veri musicisti per interpretare i membri del quartetto di Django, e non di attori che fingono di suonare.

Lo stesso Kateb si è esercitato per mesi alla chitarra per poter girare le scene di musica, perché, come spiegato da Comar, la chiave è racchiusa nell’energia che si riesce a trasmettere. E possiamo garantire che l’energia si sentiva, eccome se si sentiva! “Suonando ho creduto di essere davvero Django” ha dichiarato l’attore in conferenza stampa.

Un po’ banale la rappresentazione degli ufficiali tedeschi, brutti e cattivi, come abbiamo già visto decine di volte – ma in fondo se così erano i nazisti, che possiamo farci? Continueranno a fare i cattivoni in tutti i film, e pazienza.

Toccante, invece, l’accuratezza della rappresentazione dei rom: la lingua, la musica, le usanze. Egregi gli interpreti gitani, chapeau.

In definitiva, per dirlo a parole semplici, un bel film. Buon cast, buona regia, buona fotografia, splendida musica – punto di forza prevedibile della pellicola, certo, ma sarebbe stato davvero un delitto non puntarci.





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