“And then there was light”: natura, colpa ed espiazione made in Japan

Il film di Tatsushi Omori è difficile da vedere per il ritmo lento ma spinge a riflettere sulla natura

di Valentino Eletti

 

Un film di Tatsushi Omori. Con Arata Iura, Kyaoko Hasegawa e Manami Hashiomoto. Drammatico, 138’. Giappone, 2017.

Il film è tratto dall’omonimo romanzo di Shion Mura

 

Mihama è un’isola al largo della costa di Tokyo, e lì, a farla da padrone, sono il mare, la montagna e una natura che ricopre i piccoli caseggiati dei pescatori di modo tale che allo spettatore sembra quasi che l’uomo sia arrivato per caso e che, al più, possa essere un ospite temporaneo.

Le persone che ci vivono sono poche e anche i rapporti sembrano costruirsi sui silenzi, principalmente su quelli dei tre personaggi che ci vengono subito presentati: Yuki, un adolescente timido ma risoluto, Mika, l’unica sua compagna di classe, e infine Tasuku che adora Yuki come e più di un fratello maggiore.

I tre vivono in una condizione di stasi quasi biblica – possiamo permetterci di utilizzare questo termine perché il titolo stesso del film di Tatsushi Omori, “And then there was light”, in italiano risuona come un’eco della Genesi: “E fu la luce”.

A rompere questa dimensione idilliaca e fuori dal tempo è un omicidio. Yuki uccide un uomo per difendere Mika e poi abbandona il corpo nella foresta. La natura dell’isola, con i suoi boschi ombrosi dove il cadavere è stato nascosto, aleggia sui personaggi come una minaccia e ritornerà nel corso della pellicola come il riproporsi di un incubo.

La sera stessa del crimine un gigantesco tsunami investe l’isola. Qui il regista ci porta a riflettere, senza imposizioni, se quella catastrofe naturale sia arrivata come una punizione, come un castigo, o per puro caso.

Questa è la premessa del film. Le vicende che ci verranno presentate si svolgono infatti 25 anni dopo lo tsunami e 25 anni dopo quell’omicidio che Yuki crede di aver dimenticato. A distanza di così tanti anni si direbbe infatti che egli viva una vita tranquilla, almeno fino a quando non riappare Tasuku che dice di avere le prove che è stato proprio lui, Yuki, a uccidere quell’uomo.

Il passato bussa anche alla porta di Mika che adesso è un’attrice e che non vorrebbe vedere la sua carriera legata ad un fatto di così tanti anni prima. Si innescano così una serie di eventi che portano Yuki a scavare in qualcosa che non è stato risolto ma solo sepolto.

Il film così acquista sempre più i contorni di un incubo dove i personaggi si spogliano di un’umanità che è solo convenzione sociale per tornare ad abbracciare quella dimensione incomprensibile e spietata che è quella della natura dell’isola di Mihama, dei suoi boschi scuri e dello tsunami.

“And then there was light” non è un film di facile visione: i tempi sono infatti dilatati e i personaggi molte volte possono apparire statici, mantiene però una sua godibilità proprio nella riflessione sulla natura che è tutto tranne che rassicurante.

 

Previous article“Ferrari: un mito immortale”: tra adrenalina e rischio, i ruggenti anni ’50
Next article“Scotty and the Secret History of Hollywood”: un film liberatorio
Parole a Colori
Un portale d’informazione che si occupa di cultura e spettacolo a 360°, con un occhio di riguardo per il mondo dei libri e dell’editoria, per il cinema, la televisione, l’arte.

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here